Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” - Estratti
serena bortone
La foto incorniciata del nonno che in guerra nascose un vicino di casa ebreo. La coppa del Premio Osimo vinta a nove anni come pianista prodigio. I magneti sul frigorifero coi volti di Pier Paolo Pasolini, Frida Kahlo, Truman Capote, San Francesco. Serena Bortone prepara il tè di cui si dice «addicted» facendo su e giù fra cucina e salotto, fra cimeli di famiglia e ricordi di viaggi.
Declama i versi che le ha dedicato un amico («uno della tribù che mi segue da sempre»): «Serena, oggi non parlerò di te ma dei tuoi capelli anarchici. Amo la tua auto sporca di carta di soprano…». I libri sono ovunque. Le citazioni le vengono facili: Elias Canetti che diceva «le verità che racconto sul mio conto mi danno l’impressione di essere bugie»; Graham Greene col suo «scrivo per non impazzire».
Anche lei ha sempre scritto, sebbene in tv l’abbiamo sempre vista raccontare e intervistare, da ultimo a Che sarà su Raitre, prima, nel pomeriggio di Raiuno a Oggi è un altro giorno e in passato nei talk politici, da Agorà a TeleCamere .
Confessa: «Sono piena di racconti, romanzi iniziati e mai finiti, diari che scrivevo da ragazzina. Per me, la scrittura è sempre stata terapeutica, perché mettendo i dubbi su carta, li oggettivizzi e li governi».
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Poi, uno di quei romanzi le ha chiesto prepotentemente di essere finito, è diventato il libro dalla copertina blu sulla quale tre donne si abbracciano e che sta sul tavolo davanti al quale finalmente si è seduta, oltre che da oggi in libreria, per Rizzoli, titolo rubato a Saffo: A te vicino così dolce.
Perché questo libro le chiedeva di essere scritto?
«Perché ci tenevo a raccontare una stagione della vita, l’adolescenza, che nessuno di noi ha attraversato indenne, in cui non ti senti accettato, hai bisogno dello specchio dell’altro per capire se vali o no. Perché avevo bisogno di scrivere questa storia, biografica ma romanzata, per restituire autenticità a Paolo. In qualche modo, per salvarlo».
Paolo che nasce Paola, che è esistito, è stato suo amico.
«Il suo è stato un percorso di enorme sofferenza, che non potevo capire a fondo, se non entrandoci di nuovo dentro, da adulta. La legge sulla transizione è del 1982, la mia storia inizia nell’86: il primo psichiatra da cui Paolo va parla di schizofrenia e gli prescrive una terapia rieducativa per riportarlo “al genere naturale”. Il romanzo narra di due amiche legate da un filo che credono indissolubile, nella Roma borghese degli anni 80, anni che erano un’esplosione di vitalità, ma in cui persisteva il perbenismo tipico di un certo fariseismo pseudocattolico. Quando nella loro vita entra un ragazzo adorabile, guascone, che però si scopre non essere nato maschio, tutto sarà messo in discussione».
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Gli anni 80 pulsano vivi, coi poster degli Spandau Ballet in cameretta, i pomeriggi in discoteca ai Parioli, le estati a Londra.
«Ci credevamo liberi, ma non lo eravamo del tutto. I miei anni 80, come quelli del libro, sono stati anni fatui nella scuola dei ricchi, ambiente classista, feroce. C’erano la voglia di apparire, la musica, la sensazione che tutto fosse possibile e la paura che nulla si realizzasse. Eppure, ancora piango ripensando a quell’incanto perduto. Piango perché non tornerà più e perché ne sono uscita più forte».
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L’amore che cos’è?
«È il respiro dell’altro insieme al tuo».
La Serena del libro non voleva sposarsi, e lei?
«Non era il mio obiettivo e non è capitato. Ma il matrimonio borghese che si fa per sistemarsi mi fa venire il soffoco al solo pensiero».
Ha avuto grandi amori?
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«Senza ombra di dubbio. Ho avuto due convivenze e ora sono single, con una grande famiglia diffusa di amici. Sono sempre circondata da affetto, non so che cosa sia la solitudine. Negli ultimi anni, ho imparato anche a viaggiare da sola. Con ironia, dico: non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice».
Di cosa è fatta un’infanzia felice fuori tempo massimo?
«Di viaggi, patatine fritte nel senso di accettazione fisica, passeggiate senza meta».
Quando ha iniziato a mangiare le patatine e quanto è vera la frase della sua alter ego «ero una bambina colpevolizzata da mia madre per il mio peso eccessivo»?
«È vera l’istanza di perfezione che avevo prima di scoprire che la perfezione non esiste. E le patatine le ho sempre mangiate, solo che prima mi sentivo in colpa e oggi no».
Lei si è sempre dichiarata di sinistra e, in tv, ha sempre parlato di diritti, di ultimi: è per questo che l’anno scorso la Rai le ha chiuso un programma record di ascolti?
«La motivazione delle scelte aziendali spetta a chi le compie, non a me che sono un soldato e le rispetto».
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Ora, gli ascolti di «Che sarà» non decollano: è la difficoltà di stare su una Raitre sempre più sovranista?
«Stiamo prendendo le misure in uno spazio difficile e i segnali sono incoraggianti. Io cerco di fare un programma identitario per la Raitre in cui sono cresciuta, quella di Angelo Guglielmi, fatta di autenticità, verità, riflessione, attenzione agli ultimi».
In una puntata, si è proclamata antifascista: reazioni dai suoi dirigenti?
«Nessuna. Ho detto solo che sono libera proprio perché antifascista; se fossi fascista non potrei essere libera. È un ragionamento logico e una verità tautologica».
Nel romanzo, dice: «Ora posso finalmente diventare adulta». Che significa?
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«Piacersi abbastanza perché di te ti piacciono anche le parti che non ti piacciono».
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