Luciano Capone per "il Foglio"
UBER
I tedeschi possono usare liberamente UberPop, per ora. Il tribunale di Francoforte ha revocato la sentenza che due settimane prima aveva dato ragione alle associazioni di tassisti, bloccando la app che permette di cercare un autista attraverso lo smartphone. Il blocco non riguardava Uber in generale, come in molti avevano scritto, ma solo UberPop il servizio che permette a ogni cittadino anche senza licenza di trasformarsi in noleggiatore o tassista.
Ora il divieto a UberPop è stato revocato con una motivazione di tipo formale, il ricorso dei tassisti è arrivato troppo tardi per poter chiedere un procedimento d’urgenza: “Ci potrebbero ancora essere motivi per un’ingiunzione contro Uber – hanno detto i giudici – ma durante le nostre discussioni è apparso chiaro che non vi erano motivi per un’ingiunzione immediata”.
I tassisti hanno già annunciato un nuovo ricorso per via ordinaria, ma intanto Uber esulta perché può continuare a operare in uno dei mercati europei in più rapida ascesa. La startup californiana non è molto preoccupata dall’opposizione di quello che chiama il “cartello dei taxi”, è abituata sin dalla sua nascita e dall’ingresso in un mercato ingessato a confrontarsi con ricorsi, ordinanze, regolatori e tribunali.
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Travis Kalanick, il fondatore e ceo di Uber, era convinto di farcela quando la sua era solo una delle migliaia di startup che nascono ogni anno nella Silicon Valley, figurarsi ora che guida un colosso mondiale che vale oltre 18 miliardi di dollari. E infatti, a parte rarissimi casi come Vancouver e Calgary in Canada, l’app che fa concorrenza ai tassisti è riuscita a trovare dappertutto uno spiraglio legale per poter operare. Magari ha dovuto sottostare ad alcune condizioni.
A Seattle, dove inizialmente stava per essere bandita, ha dovuto accettare un tetto al numero di auto in circolazione, ma è comunque riuscita a essere accettata e “legalizzata” in oltre 200 città di 45 paesi in tutti i continenti. Lì a San Francisco sanno che quella legale è una battaglia di retroguardia di un mondo ormai superato che cerca di resistere, ma come ha detto lo stesso Kalanick “alla fine il progresso e l’innovazione vincono”.
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Uber è un classico esempio di “Big bang disruption”, come l’ha definita in un fortunato libro Larry Downes, ovvero l’ingresso nei mercati di attori che attraverso l’uso della tecnologia e dell’innovazione si impongono rapidamente sui concorrenti spazzando via vecchi metodi e vecchi operatori incapaci di stare al passo coi tempi. Si tratta insomma della “distruzione creatrice” della concorrenza di cui parlava un secolo fa Joseph Schumpeter.
C’è sempre una “app” più “app” che ti epura In questo contesto, dunque, le preoccupazioni di Uber non vengono tanto dalle resistenze di un mondo destinato ad adeguarsi alle innovazioni, ma da chi opera nel nuovo paradigma e corre sul suo stesso campo da gioco. Se il nemico di Kalanick una volta si chiamava “cartello dei taxi”, ora il suo nome è Lyft.
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Si tratta di una startup fondata nel 2012, sempre a San Francisco, da due trentenni, Logan Green e John Zimmer, che sfrutta l’idea di Uber di trasportare persone grazie alla geolocalizzazione e agli smartphone, ma non più attraverso autisti con berline di lusso, bensì con privati cittadini e le loro utilitarie. Le auto di Lyft, riconoscibili dai grandi baffi rosa di peluche posti sul muso dell’auto, sono presenti in più di 60 città dalla California alla East Coast. E’ una società molto più piccola di Uber, vale “appena” 700 milioni di dollari, 25 volte meno degli oltre 18 miliardi di Uber e a differenza di quest’ultima è attiva solo negli Stati Uniti.
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Ciò non toglie che la sua vivacità non stia facendo dormire sonni tranquilli a Kalanick che, per contrastarne la crescita, ha avviato due servizi più economici come UberX e UberPop che si fondano all’incirca sugli stessi principi di Lyft. Ma non basta. Il fondatore di Uber, che ama definirsi un “trust-buster” (distruttore di monopoli), ora che si trova in una posizione predominante non ha esitato a usare contro Lyft frasi e concetti dell’armamentario protezionista di chi una volta voleva tenerlo fuori dal mercato. Kalanick ha accusato i concorrenti di svolgere pratiche “criminali”, perché i loro autisti non posseggono licenze e assicurazioni commerciali.
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L’accusa è paradossale, visto che è la stessa che viene rivolta dai tassisti a Uber. L’attacco frontale contro Lyft è continuato sul terreno commerciale, a colpi di sconti nei confronti dei passeggeri e poi tentando di convincere attraverso offerte vantaggiose gli autisti di Lyft a staccare i baffi rosa dalle proprie vetture e passare a Uber.
Non sono mancati i colpi bassi: Lyft accusa Uber di prenotare attraverso suoi emissari le corse di Lyft senza presentarsi all’appuntamento, in pratica la stessa tecnica di sabotaggio utilizzata dai tassisti contro Uber. Una guerra senza quartiere, a volta combattuta con metodi poco gentili, in cui i tassisti non hanno capito bene quali armi impugnare e come combattere, ma che sta offrendo provvigioni più alte agli autisti contesi e prezzi sempre più bassi ai consumatori. E’ la concorrenza, bellezza.
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Twitter @lucianocapone