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    DERBY CAPITALE – DOTTO: "LAZIO-ROMA E’ UN FOTOROMANZO. DZEKO, MAI COSI’ LEADER, CONTRO 'HIGLANDER' ACERBI, CHE HA BATTUTO DUE VOLTE IL TUMORE. IL 'PREDATORE' IMMOBILE CONTRO 'ACHILLE' MANOLAS. E POI LA SFIDA A DISTANZA DE ROSSI-PAROLO, TESTE E ASCELLE CHE SUDANO FORZA E INTELLIGENZA. INFINE, IL GIOVINE DEBUTTANTE. NICOLÒ ZANIOLO. SARÀ PADRONE O SARÀ SOPRAFFATTO?"


     
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    Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport

     

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    Parafrasando la vita. Il derby è quello che succede mentre ne hai pensato un altro completamente diverso. In ogni caso, un fotoromanzo. Non potendo contare sulla certezza del gioco di squadra, il racconto del derby dovrà necessariamente spostarsi e sposarsi all’epica dei singoli, lo spessore voltaico dei personaggi, chi si accende da eroe e chi no da mammoletta, e le sfide, fisiche e immaginarie, l’uno contro uno.

     

    Le più ovvie, Dzeko contro Acerbi e Immobile contro Manolas. Lo ha detto l’altro giorno Walter Sabatini: “Ho preso Dzeko perché la Roma aveva bisogno di un nuovo eroe dopo Totti”. Così non è stato, perché non c’è e forse non ci sarà mai alla Roma la possibilità di combinare la preposizione “dopo” al nome “Totti”.

     

    Dzeko non ha mai nemmeno sfiorato l’impresa, se non quel giorno che è arrivato a Fiumicino, davanti a una folla ancora disposta a trasfigurarlo. Tra alti molto alti e bassi troppo bassi, il ragazzo di Sarajevo ha fatto fatica a oscurare anche il ricordo di Pruzzo e forse quello di Voeller. Personalità indecifrabile, quando dio biondo e quando malinconica comparsa.

     

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    Come in tantissimi ipersensibili, Edin lo è, il sintomo è la balbuzie, nella parola come nella vita, l’intermittenza con cui ti accendi, i salti umorali senza rete, tra il paradiso e l’abisso. Quello recentissimo è forse il miglior Dzeko mai visto a Roma, un superdotato di tecnica e di fisico, logorroico di bocca e di piede, bello e rabbioso, mai così leader, un insieme di John Holmes e Gary Cooper, quello di “Mezzogiorno di fuoco”.

     

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    A duellare con lui, ma sarà sera e le luci artificiali, Francesco Acerbi. Un eroe a prescindere da quello che sarà o non sarà il derby. L’uomo che martedì ha cancellato dall’Olimpico Piantek il Terribile. Disinnescato con stile e prepotenza. I tifosi laziali odiavano l’idea di aver perso uno come De Vrij. A distanza di pochi mesi fanno fatica anche a ricordare la faccia dell’olandese. Acerbi ha battuto due volte il tumore. Non ha mollato la prima volta e meno che mai la seconda, recidivo e più che mai aggressivo. Può aver paura di Dzeko o di chiunque altro? Il male lo ha aggredito ai testicoli e i suoi testicoli, da reali a immaginari, sono diventati giganteschi.

     

    Speciali, almeno quanto quelli di Pablo Simeone, senza che lui senta il bisogno di mostrarli a uno stadio intero. Dalla malattia in poi, Acerbi è diventato un corpo mistico e una testa da condottiero, un Highlander che trascina gli altri nell’emozione dell’impossibile dopo aver trascinato se stesso. La sua impresa è permanente, quotidiana, come il miracolo di essere vivo. Acerbi non dimentica. La memoria è il suo ferro. Lui dice ogni volta grazie a Dio, ma deve dirlo prima di tutto a se stesso.

     

    Immobile è quello che è. La rivolta contro il suo cognome, prima di tutto. E anche contro il suo nome, Ciro di Torre Annunziata, che non pare come la premessa e nemmeno la promessa di chissà quale storia. Deambula irrequieto giorno e notte, purché sia un campo calpestabile, con il suo passo a metà tra il bandolero stanco e il predatore della savana. Immobile è James Cagney, il killer che sente l’odore del sangue. Non ha nulla della statua divina alla Dzeko, ma micidiale e cattivo sempre, come Dzeko non sarà mai. Molti tifosi romanisti non lo confessano nemmeno a se stessi, ma un pensierino all’eventuale baratto lo farebbero eccome.

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    Lo dicono appannato di questi tempi, ma se c’è uno che non è panna, uno di cui aver paura a Trigoria è lui, Ciro di Torre Annunziata, detto anche Fame Atavica. 

    Avrà addosso l’alito forte e il ringhio mai augurabile di Kostas Manolas, caviglia permettendo, nipote di cotanto zio (Stelios, pure lui difensore e non meno guerriero). Kostas è uno strano duro. Una specie di ciclonico e invincibile Lothar, con una percezione esagerata della propria vulnerabilità. Ti fa le occhiatacce, mostra i muscoli, ti monta sopra se occorre, ma sa in cuor suo quanto la tracotanza dei forti sia fondata sul nulla e quanto sia frangibile il suo enorme scudo di bronzo con sette pelli di bue. Conosce, come Achille, la labilità degli eroi. Ogni volta che cade a terra, il nonnulla diventa tragedia, per fortuna quasi sempre solo declamata. Strepita ossesso come l’eroe smascherato. Ma poi si rialza sempre. E dilata le narici.

    zaniolo zaniolo

     

    E poi. Nel nome di Totti. Dove non è riuscito Dzeko, potrebbe riuscire lui. Riavviare la macchina onirica. Il Giovine Debuttante. Nicolò Zaniolo, figlio di Igor e di Francesca, la mamma sexy, ma lui in campo e non solo più sexy di lei. Sosia per eccesso di Oliver Coopersmith. Quante pagine e titoli avrà nel racconto del derby? Sarà padrone o sarà sopraffatto? Una suggestione più che un calciatore. Un abito di cachemire su una Norton di grossa cilindrata. Uno che canta come Frank Sinatra e rappa come Fabri Fibra. Detto “il predestinato” ma il destino, se giochi nella Roma o nella Lazio, passa per il derby, prima che per ogni altro dove. A 19 anni e 8 mesi, alla caccia dell’impresa, il primo gol nel derby. Totti ne aveva 22. Nel suo spazio, lo aspetteranno al varco due cactus molto spinosi. Stefan Radu e Senad Lulic, ginocchio permettendo. Sono loro, un rumeno e un bosniaco, l’anima biancoceleste del derby. Cattivi spesso, truci sempre in questa occasione. Fatti apposta sembrano, in qualunque copione, per vendicarsi del talento un po’ arrogante del Giovine Debuttante. Sinonimo anche, Lulic, di come e quanto si possa far male alla Roma.

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    Su tutto e su tutti, la sfida a distanza, Daniele De Rossi contro Marco Parolo, Teste e ascelle che sudano forza e intelligenza. Nei momenti difficili, se i compagni cercano uno sguardo per rianimarsi è il loro. Dopo aver perso i due barbari del tempio, Strootman e Nainggo, la Roma si aggrappa ferocemente al suo ragazzo di Ostia, alla sua anima gigantesca, cui si aggrappa per primo lui stesso, De Rossi, non avendo più al mille per mille il conforto di ossa e muscoli. Capitano, oggi, alla massima per quanto depauperata potenza. Emotivo e calmo, finalmente capace di respirare il derby senza che il suo sistema nervoso s’infiammi. Così Parolo, di là. La roccia. La certezza di una squadra troppo spesso ostaggio dei suoi talenti. Puoi esistere da squadra senza i Felipe Anderson, i Milinkovic Savic e i Luis Alberto, non puoi esistere senza i Parolo.

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