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    DOTTO, L’ATTESA DI ROMA-AJAX E QUELLO CHE FA DEL ROMANISTA UN TIFOSO UNICO AL MONDO - "DELUSIONI IN SEQUENZA, STRAZIANTI MEMORIE NON LO HANNO SFIANCATO. MI COLPISCE IL MIRACOLO DI QUEST’EMOTIVITÀ, LEI SÌ INVULNERABILE. SENTIRLI INVEIRE IN CORO PER L’USCITA DI UN LORO IDOLO, VINCENT CANDELA CHE, SPINTO NON SI SA DA COSA, HA SENTITO IL BISOGNO DI PRONOSTICARE PUBBLICAMENTE LA ROMA GIÀ IN SEMIFINALE…"


     
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    Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport

     

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    Ho smosso un po’ le acque, le vene e le viscere dei lupacchiotti sparsi nel pianeta, da Testaccio a Monteverde, Labaro e Spinaceto, ma toccando sponde londinesi, portoghesi e brasiliane e mi sono ritrovato ad asciugarmi più di una mezza e furtiva lacrima. Assurdamente commosso nel registrare una volta di più la qualità che fa del romanista un tifoso unico al mondo. E senza una briciola di retorica.

     

    Lui sì, il tifoso romanista, assurdo e unico per come sa far ripartire e fomentare ogni volta la fornace dei suoi sogni, uscendo illeso da diecimila delusioni che avrebbero abbattuto mandrie di bufali, ma non lui l’unicorno del tifo, esemplare speriamo non in via di estinzione. Ho parlato con settantenne torturati dalla sciatica e dalla nostalgia di Falcao e ragazzi ancora implumi, ma scaraventati da qualche forza misteriosa nel solco della passione romanista, quasi immacolati nella fedina penale, nel senso delle pene da tifo.

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    Ho sfruculiato cinquantenni fermi all’adorazione quasi omosessuale di Rudi Voeller, quarantenni con il santino di Totti tatuato nella testa, la zolla dell’Olimpico incorniciata in camera da letto accanto a quella di Maria, che aspettano vent’anni dopo di vincere qualcosa di serio. Ho parlato con quelli che hanno festeggiato il ritorno a casa di Daniele colpito dal Covid come fosse un parente stretto. Con quelli che c’erano la notte del Liverpool, la notte antologica dell’epica rovescia del mondo romanista, quando la sconfitta scava baratri così esagerati da risultare quasi amica nella memoria. Con quelli che sono scoppiati di gioia, ma scoppiati davvero, la sera all’Olimpico di Roma-Barcellona e poi rimessi in cantina da quella successiva del Liverpool, la squadra dell’incubo romanista.

     

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    Questo non smette di risultarmi stupefacente del tifoso romanista che è in me e fuori di me. Attese bibliche, delusioni in sequenza, strazianti memorie, altre grottesche, non lo hanno sfiancato. Non lo logorano di un millimetro. Mi stupisce questa infantile innocenza che resiste e persevera in rugose cariatidi provate dal tempo e dalla vita.

     

    Quasi mi sconvolge, senza quasi, sentire ognuno di loro, uomini, donne, ragazzi, di ogni età, come se si fossero passati un testimone, contare alla rovescia questa partita con l’Ajax, come se fosse la prima volta, l’epifania di un viaggio nella stratosfera e non l’ennesima possibile stazione di un calvario ben conosciuto. Mi colpisce il miracolo di quest’emotività, lei sì invulnerabile.

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    Sentirli inveire in coro per l’uscita di un loro (ex?) idolo, Vincent Candela che, spinto non si sa da cosa, una pulsione suicida, un black out della mente, ha sentito il bisogno di pronosticare pubblicamente la Roma già in semifinale. Mi conquista la capacità polisemica ai confini del delirio del tifoso romanista nel suo spingersi a cercare connessioni di ogni tipo, schegge allucinatorie, tipo la visione di uno Dzeko stasera protagonista perché nel suo destino di ex Manchester City c’è scritta la sfida con i rivali dello United. Vaneggiamenti, appunto. United che, non sarà ma se mai dovesse essere, scatenerebbe memorie e tempeste cardiache peggiori.

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    Tutto questo bollore dovrà questa sera consumarsi tra le mura di casa, spazi domestici reinventati e addobbati come frammenti dell’Olimpico vietato. Sarà una notte bulimica, interminabile o troppo breve, di pizze e calici divorati per brindare se la squadra del cuore ha vinto, per consolarsi se succede l’altra cosa. Ognuno di loro, di noi, nelle rispettive tane, proverà a diventare con tutta la forza di un’immane sabba spiritico la testa di Mancini, il cuore di Veretout, la dentatura di Ibanez, il genio di Miki, la classe infinita di Edin, la fascia di Lorenzo.

     

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    “Devono sentirlo il morso sul collo i bambocci dell’Ajax, i lividi sulle gambe, ancora prima di entrare nel tunnel. Devono capire cosa vuol dire giocare nello stadio della Roma”, mi prega di trasmettere il barbiere di Monteverde. Una cosa è certa. Se Pellegrini, Mancini e compagni saranno capaci anche per un secondo di  sintonizzarsi con l’enormità di questa passione che li scorterà dalle case di tutta Roma, non avranno altra scelta che essere per una notte invincibili. Più forti di tutto, anche delle stravaganze del pallone.    

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