Francesco Persili per Dagospia
giancarlo dotto cover
Finiti i giganti, siamo sulle spalle dei nani. Maradona e Cruyff sono morti. Edberg e Jordan si sono ritirati, e anche Federer non si sente troppo bene. Abbiamo bisogno dei miti dello sport. Un’allucinazione per trasfigurare la realtà, un inganno fondamentale per eludere ciò che ci spaventa a morte: aver a che fare con noi stessi. Per questo costruiamo mondi immaginari intorno all’agonismo, inventiamo eroi.
Del resto, cosa sono le arene senza i grandi gladiatori? Nulla. Solo polvere e sabbia.
I vecchi dei dello sport ci spernacchiano dall’Olimpo, quelli nuovi faticano a palesarsi e a prendersi le nostre viscere, la nostra anima. La fabbrica dei sogni chiude per fallimento.
Alla Nazionale che si imbarca per l’avventura degli Europei manca il numero 10 in grado di accendere l’erezione della fantasia. Siamo passati da un’epoca in cui ne avevamo fin troppi (Totti, Del Piero, Cassano) alla mistica del gruppo, all'esaltazione del collettivo per sublimare l'assenza del genio.
Carmelo Bene e Giancarlo Dotto
Giancarlo Dotto nel suo libro “Il dio che non c’è” indaga il deficit mitologico che caratterizza la nostra società e ricorda l’inquietudine di David Foster Wallace per la finale degli Us Open che vide Federer trionfare su Agassi nel 2005 o l’adorazione di Carmelo Bene per Van Basten.
“Ma quale Gassman, Strehler o Kandinskij! Rinuncerei a qualunque artista di ieri o di oggi in cambio della vita in campo di Van Basten”, disse dopo l’addio prematuro al calcio del Cigno di Utrecht: “Se mi sento molto più stanco, molto più vecchio è al pensiero che uno come lui non ci sarà più. Me la sento addosso la mancanza, la sottrazione di stupore. L’amore non è per fare in culo tra gli uomini. È solo questa la mia stanchezza perché ho bisogno di miti, io…”.
PASQUALE BRUNO VAN BASTEN
Per questo Bene si inginocchiava davanti alla tv dopo una punizione al bacio di Platini, accostava la Nuova Zelanda del rugby al Brasile del calcio, “magnifiche orchestre di solisti”, delirava per il visionario Falcao che preferiva al talento ovvio di Antognoni, stanava la grandezza di Romario, nanerottolo d’area, “talmente invisibile che non era intercettabile nemmeno alla moviola”. “Siamo mendicanti di bellezza, e il calcio ci riempie gli occhi”, scriveva Galeano, che non era un terzino della “Celeste”, ma un grande scrittore uruguagio.
Per non affogare nella disperante banalità del gioco ridotto a numero, statistica o sondaggio d’opinione sulla prossima stella del prossimo Europeo (Mbappè, Ronaldo, Fode, De Bruyne, o magari Kane e Lewandowski), l’invito è quello di riscoprirsi “mitomani”, in grado di eccitarsi patologicamente, trasfigurare, mitizzare.
Costacurta
Nel mucchio selvaggio dei commentatori tv Dotto rivede in Pardo i tratti di un “Falstaff microfonato dei giorni nostri” e paragona Chiambretti a un “Fellini in versione tascabile” del tubo catodico, rifila bordate al “manichino” “Billy” Costacurta (“Pantaloncino a tubo, prosa scolastica, lo preferivo da stopper”), a "Zia" Bergomi, "a cui manca solo la veletta da vedova e l'uncinetto", e al "Cardinal" Condò “votato alla sempre più rotonda e insignificante calligrafia del pensierino azzeccato”. Personaggio "notevole e in cerca d'autore", resta Lele Adani, “una minacciosa anomalia dallo sguardo febbrile e dalla parola maniaca”, la cui falla percepita è un tasso elevato di morbosità…”
LELE ADANI
paolo condò
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