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    QUESTIONE DI FEDE – DOTTO IN ESTASI DAVANTI ALLA PELLEGRINI: "TORNANDO DA TOKYO, LE CONVERRÀ SPARIRE. CONSEGNARSI ALL’INVISIBILITÀ. COME FANNO LE VERE FIGURE MITOLOGICHE. DA DIVINA DOVRÀ DISSOLVERSI IN DIVA, MEGLIO SE DEL MUTO. FEDERICA COME GRETA GARBO, MINA, BATTISTI. PER LEI PARLERANNO LE SUE IMPRESE" - L’ETICA DEL LAVORO E LA NECESSITÀ DI ESSERE LA MIGLIORE, LE TANTE LACRIME E LA FORZA DI NON ARRENDERSI MAI – VIDEO


     
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    Giancarlo Dotto per il "Corriere dello Sport"

     

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    Ci vuole Fede. Tanta Fede. Ma questa è troppa Fede. La notizia ti stende e non sai da dove cominciare. Le parole? Un abecedario per raccontare la galassia. I numeri? Un pallottoliere per spiegare l’equazione di Einstein.

     

    Federica Pellegrini non è più una donna, è un’iperbole. Quinta finale consecutiva nella stessa specialità di una gara olimpica. Come lei solo Michael Phelps, il cannibale. Lui e Franziska van Almsick, le uniche passioni idolatriche della ragazza Federica non ancora a sua volta idolo. E se, nella notte, dovesse mai accadere l’impossibile, non accadrà, ma Federica è un animale mitologico, non sottovalutatela mai, beh, in quel caso, aggiungete voi a vostro estro e piacimento, lirico, stupefatto, commosso, urlante, le righe che mancano a questo pezzo scritto dal passato. Resterà, comunque, l’impresa che toglie il fiato. La quinta finale consecutiva.

     

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      Una storia lunga 17 anni, al confine dell’umano. Una storia senza senso, traboccante di senso. Una storia così grande che, per quanto lei si dannerà fuori le vasche da qui all’eternità, non potrà mai esserne all’altezza. Tornando da Tokyo, le converrà sparire. Consegnarsi all’invisibilità. Come fanno le vere figure mitologiche. Da divina dovrà dissolversi in diva, meglio se del muto. Come si usava un tempo, quando i miti erano distanza intangibile. Federica Pellegrini come Greta Garbo, Mina, Battisti, ma anche Glenn Miller, la tromba più vellutata della storia, sparito nel nulla mentre sorvolava la Manica, forse rapito dagli Ufo.

     

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    Federica si faccia rapire da qualche avvenente alieno e si faccia trasferire più a nord di Marte, se vorrà essere all’altezza della sua non misurabile grandezza. Rinunci altezzosamente al mediocre piacere delle comparse a gettone, ai malinconici riti mondani delle star esibite alle masse.

     

    Ragazza pragmatica, come quasi tutta la sua gente, con i piedi per terra anche quando sono in acqua, lei chiuderà invece il mito di sé in qualche dispensa della memoria e si darà alla pazza gioia. A 33 anni, tutto il diritto di farlo. Essere, finalmente, una dei tanti. Libera di cazzeggiare e di diventare moglie, madre, qualsiasi cosa. E grazie comunque per quello che è stato. 

     

    Federica, con gli anni, è diventata cedevole al pianto. Le lacrime sono la sua frana quando quello che fa è più di quanto sia pensabile fare. Piange dove capita. Ha pianto dopo l’oro vinto a Kwangju, il suo ultimo mondiale, due anni fa. Ha pianto quest’anno a Riccione dopo aver ottenuto il tempo utile per la sua quinta Olimpiade, quando già partecipare a Rio 2016 era sembrata un’enormità. Ha pianto a Tokyo per la sua quinta finale.

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    Fede sposta le montagne e poi piange. Ha lavorato come una pazza in altura, carichi pesanti da mula, perché pazza era la sua sfida. Si chiama Fede, ma si traduce lavoro. Le due cose insieme, una bomba. Più la faccenda si complica, più lei diventa cattiva. Si esalta. Perché Federica diventa cattiva dentro se il mondo fuori la sfida. Ragazza d’acqua dolce (ha paura del mare e dei suoi abissi), ma implacabile. La pandemia sembrava il colpo di grazia. Colpiva il mondo, ha colpito anche lei. In modo brutto, molto ostile. Fede si arrende? No, Fede non si arrende. Mai. Ha pianto, ma non si è arresa. 

     

    Quella sua è, da 20 anni, la storia rovescia, l’eccezione che conferma la regola, di un Paese che ha perso la spina dorsale, vertebra su vertebra, in politica, in economia, nelle relazioni sociali e nelle spinte culturali. Nel collasso progressivo di tutto, dell’etica, delle ambizioni, della solidarietà e della decenza. Quella di scrivere ogni giorno allo specchio l’unico capolavoro che conta, un’autobiografia decente.

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    Federica ha fatto della sua vita un’opera permanente. L’ha scolpita come Michelangelo. E ne ha fatto un capolavoro. Come gli italiani di una volta, elementari ma innegabili identità solide, perpendicolari anche quando cadevano, come le mele di Newton. Prima di diventare così disperatamente liquide, evanescenti, in eterna transizione di genere, d’idea, di partito, di cosmetica. Gli italiani che camminavano per necessità sui carboni ardenti e, poi, solo avendo una telecamera puntata addosso. 

     

    Federica è razza Piave. I veneti di una volta, emigranti per necessità, a bonificare paludi malariche, a servire le tavole e a lavare le mutande dei ricchi, quasi sempre ferventi cattolici al riparo della preghiera e di un rosario, ma capaci come nessuno a zappare e a sbracciare. Con tutti i suoi cliché e orpelli mondani, i suoi ammiccamenti alle mode, le sue concessioni ai social e alla tivù, per i quali si becca l’inevitabile dose di odio, Federica discende da quei lombi lì.

     

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    È una veneta fatta col fil di ferro, una guerriera inesorabile al servizio della Madonna, in cui nel tempo ha riconosciuto se stessa. Più oltranzista dei suoi stessi corregionali, quelli più laboriosi, che alla fine due settimane alle Maldive se le concedono. La sua etica del lavoro è inflessibile. Al punto da convincersi che replicare vasche all’infinito non fosse la metafora di un nauseato suicidio robotico, ma divertimento puro, piacere illimitato. Eh già, la forza della mente. Virtù in cui Fede non è seconda a nessuno. Più forte anche del suo saper nuotare supersonica. 

     

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    Sono cambiate le avversarie, le regole, i costumi da competizione, ma lei resta. Questione di Fede e di scienza. Il piacere della sfida. E lo scarico delle lacrime, salvo smentirsi un secondo dopo, “Cacchio, sto diventando patetica!”. La necessità di essere la migliore, come suo papà Roberto nel suo campo, il mago degli spritz e delle combinazioni da cocktail, sempre di liquidi parliamo, che ha smesso di gettarsi dal paracadute quando è nata Federica e ha gettato lei in acqua quando ancora non sapeva camminare. Amor di padre. 1988. L’anno in cui Massimo Ranieri vince a Sanremo cantando “Perdere l’amore” e mamma Cinzia tiene in braccio la neonata, appena uscita dalle sue acque, mentre alla tivù passano le immagini delle Olimpiadi di Seul. 

     

    L’ostinazione di Federica non ha mai sfiorato il patetico. Le va riconosciuto il merito d’aver insistito fino all’ultima vasca sapendo che l’avrebbe fatta con assoluta decenza. Così è stato. Tra pochi giorni tornerà a casa e l’unica cosa che dovrà programmare saranno le otto docce quotidiane, a compensare l’astinenza da acqua. 

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