Renato Minore per “il Messaggero”
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Due storie quasi vere quelle dell'ultimo romanzo di Walter Siti La natura è innocente strappate alla cronaca, di cui si poteva conservare un qualche ricordo, per la loro davvero esasperata singolarità. Quella di Filippo Addamo che a Catania uccide la madre di cui è follemente geloso, si fa molti anni di carcere per poi essere intercettato, anche con l'aiuto di Valeria Golino, da Siti come spinosa e trascinante materia di racconto.
E quella di Ruggero, pornoattore gay nonché ricercatore di matematica alla Sapienza e vedovo di un Principe milionario ed eccentrico. Quasi vere perché un po' di fiction, mescolanza di finzione e verità, è indispensabile per montarle in un percorso di percettibile identità e urgenza, per snidarle, inseguirle, avvoltolarcisi intorno e dentro. Come fa Siti secondo il passo di un romanzo davvero incalzante ed estremo che vuole anche essere, per sua stessa, definizione, «una autobiografia bifida e appaltata». Cioè «reale e simbolica», sulle spalle di persone viventi iscritte nei registri dell'anagrafe: di Carlo Masi (nome d'arte di Ruggero) esiste perfino una voce di Wikipedia. Su temi del romanzo (l'innocenza perfida della natura, il vitalismo resistente, la rappresentazione del nostro paese attraverso vicende estreme) discuto con Siti alla vigilia dell'uscita del romanzo.
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Dall'autofiction dei primi romanzi alla autobiografia bifida e appaltata di quest'ultimo. Un approdo necessario, estremo, strategico?
«Soprattutto necessario: la mia biografia ormai mi annoia, ma certe faglie profonde non si sono rimarginate. Quindi avevo bisogno di forze giovani, di qualcuno che mi portasse a rivisitarle a sua insaputa, con la propria disordinata fame di vita. È anche un approdo strategico in quanto scrittore: l'autofiction mi dettava una trama in qualche misura già data, mentre qui sono libero di scegliere le storie e quindi sono obbligato a riflettere su che significa farlo».
Si dice attratto da due storie diverse, ma entrambe immorali. Perché?
«A compiere azioni amorali, o giustamente condannate dalla società, non sono sempre le persone peggiori, anzi. L'immoralità mi attrae anche come correttivo a un perbenismo insopportabilmente retorico: obbedire ai propri impulsi trasgressivi significa sottrarsi a chi pretende di mettere le mutande al mondo, significa restare fedeli alla nostra animalità, troppo spesso dimenticata».
Scrive: La mia fascinazione per il male è oscura anche a me stesso. In questo non cambia registro rispetto al passato.
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«Il Diavolo è l'antagonista della Creazione, l'unico che ci ricordi che non era necessario che l'Essere fosse. La potente nostalgia del Nulla mi è sempre servita, e ancora mi serve, a mascherare il mio senso di colpa per non aver saputo utilizzare al meglio la nascita, con quello che ne è seguito e si trascina da troppo. L'esistere è per chi sa trarne beneficio e ne è contento. Poi, ovviamente, non resta che lavorare meglio che si può, ma a questo il Diavolo non è mica contrario».
Due storie vere o quasi, con nomi e cognomi, cercando il più possibile di attenerti ai fatti, ore di registrazione, tanta documentazione In cosa pensi che il tuo stile sia cambiato?
«A dir la verità, molto lavoro preparatorio lo facevo anche prima: registrazioni, sopralluoghi ecc. - da questo punto di vista non è cambiato molto. Se è cambiato qualcosa nello stile (e io sono la persona meno indicata a parlarne) è forse nel senso di una pacificazione senile: ho meno bisogno di metafore espressioniste, mi lascio meno trasportare dai nervi e forse ho acquistato un po' più di ironica comprensione».
In un suo precedente romanzo, come autore dice al suo protagonista che è il suo stuntman, esegue le scene più pericolose. Accade anche per Filippo e Ruggero, il matricida e l'arrampicatore sessuale?
WALTER SITI BRUCIARE TUTTO
«Che loro siano i miei stuntman lo dico esplicitamente nella dedica, sono troppo vecchio e acciaccato per il lavoro di minatore. Immaginarli così mi aiuta a imprigionarli nel ruolo di personaggi, altrimenti sarebbero persone e il romanzo non sarebbe capace di contenerli».
Scrive di essere stato tentato di ricavare da due storie banalmente estreme un'immagine del nostro paese. Qual è l'elemento più forte di questa immagine?
«In primis è la loro storia, filtrata dalla mia; sono due (tre, se conto me stesso) casi particolari. Ma un po' dell'aria del nostro Paese vi si respira, credo: nel vitalismo inteso come risorsa, rimedio e vanto; nella mancanza di senso di responsabilità, come se le azioni non avessero conseguenze (ci si stupisce sempre quando ciò che era ovvio accadesse accade); nella banalità come esito di estremismi mal voluti e desideri rimossi».
Si ferma al 2016 nel racconto. E se le chiedessi come muta questa immagine, come potrebbero vivere Filippo e Ruggero in questi giorni del Coronavirus?
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«Nel libro arrivo con alcune note fino al 2020: di fronte all'epidemia, credo che cerchino di godere il godibile, aspettando che il peggio passi. Come ginestre alle falde del Vesuvio».
La sua idea della letteratura di profondità attenta allo stile serve anche a contrapporsi ad altra idea che avanza della letteratura di efficacia di superficie, non solo verbale, che dialoga con l'immagine e il suono? Resistere non serve a nulla? O sì?
«Resistere forse non è il verbo adatto; direi testimoniare. Lasciare rovine dalla forma inconsueta che magari, quando (e se) l'ubriacatura della comunicazione e dell'influire subito sul maggior numero di coscienze sarà passata, possano essere guardate con curiosità. Vuoi vedere che lì sotto c'è qualcosa di più di quello che sembrava?».
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