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Estratto dell'articolo di Stefano Pistolini per www.ilfoglio.it
Adesso che si è stabilito che una porzione di ragazzi italiani riversa la propria socialità nella forma d’aggregazione etichettata come “gang” [...] a ruota viaggia l’apparentamento del tutto con la musica trap [...].
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Le cose stanno diversamente: le gang delle metropoli, degli hinterland e della nostra provincia crescono e si vanno configurando in molti modi diversi e con finalità estranee tra loro, svariando dal teppismo occasionale al terminale delle grandi organizzazioni, passando per complicate definizioni razziali, razzistiche, interrazziali e, sovente, di dislocazione culturale da un’origine a un riadattamento a un contesto estraneo – quello che per un immigrato di prima o seconda generazione costituisce il nostro paese.
È un fenomeno nato per restare, che non viene decapitato da alcuni volenterosi arresti, ma che anzi si rigenera e si rafforza attraverso la folcloristica rappresentazione di queste operazioni, con forte personalizzazione e allestimento di miti istantanei.
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La musica trap c’entra? C’entra quanto c’entrano il calcio e la fedeltà a una tifoseria. È un pendant che aiuta a comporre la descrizione di un’adesione, contribuisce alla divisa, è una colonna sonora da megawatt, allestita dal frammentato e residuale cantautorato trap, che racconta uno stile di vita, per quanto reprobo possa sembrare, invitando a gongolarsi nella sua peccaminosità.
Ma Baby Gang, Simba La Rue, Baby Touché e compagni faticano a investirsi della statura che gli si attribuisce, mantengono un’aria da muretto e da cortile dei palazzoni, destinata a essere presto eclissata da figure più imponenti, minacciose e meno visibili.
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Rimandare il tutto alla musica trap come ispirazione o, peggio, identificare questi neo-detenuti come malavitosi della trap e non come gangster in erba, equivale a restituire alla società dello spettacolo una responsabilità creativa che da tempo non ha più, al rimorchio come vive di una realtà che sa essere ben più creativa e pericolosa.
La trap sta alle gang come il rap stava alla violenza dei quartieri-giungla di Parigi, New York, Londra o Los Angeles: è il doposcuola (l’uovo e la gallina, no?), la merenda di chi ha voltato le spalle alle opportunità, ammesso ne abbia mai avute, organizzando un’esistenza basata sull’illegalità e la sopraffazione, con allettanti prospettive economiche.
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Poi, certo, si canticchia una canzone trap, come si va a fare una nuotata, tra un affare e l’altro. Ciò che conta è che non s’intravedono altri motivi per cui la vita valga la pena d’essere vissuta.
Che sono spariti i temi che solo pochi anni fa appassionavano i ragazzi della stessa età – la politica, o le cause per cui battersi.
Si moriva anche per quelle motivazioni, o si finiva in galera, e anche allora c’era una musica a fare da colonna sonora. Però tutto sembrava avere più senso, prima che il mondo andasse in un’altra direzione. Ma fare questo paragone è soltanto arrogante, se prima non si comincia il doloroso procedimento del capire come e perché a tutto ciò si è arrivati.
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