Tommaso Labate per il Corriere della Sera - Estratti
landini conte
«Può diventare lo Tsipras italiano». Ecco, quando Maurizio Landini cucì questo auspicio a misura di Sergio Cofferati era il 2015 e la sinistra radicale europea era innamorata dell’allora premier greco, le malelingue interne al sindacato pensavano che stesse ritagliando quel ruolo per se stesso. «Non ci ho mai pensato», smentì lui, provando ad arginare le voci di un’imminente discesa nel campo che erano nate attorno all’idea di «Coalizione sociale», quella sorta di esperimento-laboratorio che sempre lui, Landini, aveva escogitato per coprire a sinistra lo spazio lasciato libero dal Pd targato Matteo Renzi.
Fu una specie di applicazione, in chiave politica, di quello che in campo musicale era stata la Fonopoli di Renato Zero: tutti ne discutevano, tanti la sognavano, pochi capirono di che cosa si trattasse; poi a un certo punto nessuno, a partire dal diretto interessato, ne parlò più.
MAURIZIO LANDINI ELLY SCHLEIN - MANIFESTAZIONE CONTRO IL PATRIARCATO E LA VIOLENZA SULLE DONNE
A nove anni da quell’idea, poi accantonata perché Landini si concentrò con successo nella rincorsa alla guida della Cgil, di lui si torna a parlare nelle segrete stanze della politica come del possibile federatore della sinistra riunificata. Insomma, come leader di quel campo largo in cui sostanzialmente potrebbe rappresentare l’unico punto di incontro possibile tra Elly Schlein e Giuseppe Conte, l’unica leadership rispetto alla quale i vertici di Pd e M5S farebbero un passo di lato.
In fondo, quella capacità di riuscire a mettere d’accordo i nemici meglio ancora che gli amici, a piacere agli avversari più che ai compagni, Landini l’ha sempre avuta, come se fosse una specie di tocco magico, che lo accompagna da quando era il leader della Fiom che si opponeva alla svolta internazionale che Sergio Marchionne aveva impresso alla Fiat. Una sorta di mistero della fede, che l’allora amministratore delegato del Lingotto aveva impresso nel taccuino di Massimo Gramellini con parole rimaste scolpite nella pietra: «Mi volete spiegare perché Landini ha un consenso pazzesco mentre io sto sulle palle a tutti?». E ancora: «Landini è uno vero. Ed è anche molto simpatico, persino a me».
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Non ci fu solo Marchionne. Tra gli avversari futuri anche Matteo Renzi, all’inizio della sua avventura nazionale nel Pd, era rimasto sedotto dalla fascinazione estetico-politica che accompagnava Landini. Al punto che, nel primo bozzetto della squadra di governo con cui avrebbe sostituito a Palazzo Chigi l’esecutivo guidato da Enrico Letta, il Rottamatore s’era lasciato suggestionare da una sorta di effetto galacticos — Nicola Gratteri alla Giustizia, Landini al Lavoro — poi naufragato perché il primo venne stoppato dal Quirinale e il secondo si chiamò fuori, fiutando evidentemente puzza di fregatura.
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Alla puzza di fregatura Landini è allenato. Come tutti i leader sindacali, in particolar modo i meccanici, sul muro ha le tacche delle vittorie (Electrolux, le acciaierie Ast di Terni) e delle sconfitte (con la Fiat di Marchionne a Pomigliano d’Arco) e in bocca il sapore amaro di successi che lo sembravano ma non lo erano fino in fondo (la vicenda Ilva).
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L’incontro con un sindacalista arrivato alla Ceti proprio dalla Fiat di Pomigliano d’Arco, scherzo del destino, lo avrebbe indirizzato all’attività nella Fiom, a metà degli anni Ottanta, pochi anni dopo aver preso la tessera del Partito comunista italiano. Bravissimo davanti alle telecamere, allergico ai social network, abilissimo nel passare dalla felpa al binomio giacca-camicia senza cravatta quando la prima gli era stata copiata da Matteo Salvini, Landini risponde alle domande sul suo futuro in politica con quell’ambiguità tipica di chi ci pensa, forse, ma nel frattempo deve dire di no.
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«Penso solo al sindacato», ripete sempre anche in privato, col tratto tipico di chi trattiene la voglia di confidarsi perché in fondo non si fida di nessuno. Schlein e Conte, i primi passi informali, li starebbero già facendo.
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