Alessia Marani e Camilla Mozzetti per “il Messaggero”
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Smanioso e iracondo. Aveva iniziato a dare fastidio in un ambiente dove non poteva permetterselo, nonostante la sua fama e il credito che negli anni aveva acquisito riuscendo a entrare nelle grazie di un boss da novanta come Michele Senese. «Diabolik ci sta dando dei problemi» confidava un uomo in odore di malavita la scorsa estate – poco prima che Fabrizio Piscitelli venisse freddato su una panchina al parco degli Acquedotti da un colpo di pistola alla testa – a un altro uomo che del capo ultras conosceva le “gesta” dell’Olimpico quando Piscitelli era ancora – e soltanto – il numero uno della curva Nord.
Lui non lo aveva capito nonostante qualcuno l’avesse anche messo in guardia, accecato forse da quella smania di dominio che gli aveva annebbiato probabilmente i pensieri a tal punto da non capire più quando era il momento di parlare e quello di stare in silenzio. Quando si doveva rimanere al proprio posto senza forzare confini prestabiliti.
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IL SILENZIO TRADITO
Ma provare a frenare Piscitelli era diventato quasi impossibile perché di chiacchiere ne aveva messe in giro molte e in alcuni casi gli avevano forse garantito anche dei “salvacondotti” con la giustizia. Episodi che avevano inceppato l’ingranaggio perfetto che regolava i rapporti nella criminalità organizzata romana dove non ci sono monopoli, ma piuttosto piccoli oligarchi che si dividono la città arrivando a mordersi come cani solo all’occorrenza.
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Con chi parla Piscitelli? Chi incontra Fabrizio? Cosa va a raccontare in giro Diabolik? Qualcuno forse si era fatto venire il sospetto che gli interlocutori non fossero più solo e soltanto gli amici di sempre, che Piscitelli fosse l’artefice di qualche soffiata, e che pure tra il giro della “mala” avesse iniziato a seminare zizzania nell’entourage di chi è solito sporcarsi con la droga perché rischia in prima persona andando a fare il carico all’estero per mettere la merce a reddito delle piazze di spaccio.
Che fosse riuscito a mettersi contro gli stessi uomini con cui sembrava fosse in affari? Adesso chi indaga sulla sua morte è convinto che qualcuno dei “suoi” non lo ritenesse più affidabile tanto da non opporsi alla sua “condanna a morte” decretata a livelli più alti tra i clan che hanno stretto un patto di non belligeranza per il controllo della Capitale.
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Dalla sera del sette agosto sono passati 5 mesi. Nessuna rappresaglia, nessun regolamento dei conti eppure si dice che Piscitelli avesse le spalle coperte da “o’pazzo’”. Una volta forse. Il capo ultras è stato freddato non in una strada qualunque della Capitale ma nel territorio in cui operano proprio i Senese. Una casualità? O un messaggio chiaro per spiegare la matrice di un gesto concordato tra gruppi criminali per disfarsi di un personaggio diventato scomodo?
AQUILA NERA
C’è una data che torna utile a capire probabilmente chi tra i tanti dei suoi amici era forse diventato un nemico. È quella del primo agosto scorso quando la Squadra Mobile di Roma firma l’operazione “Aquila Nera” portando dietro le sbarre un gruppo agguerrito di criminali – 5 albanesi, un rumeno e un italiano – e costringendo ai domiciliari una donna romana e un altro albanese. «Un’organizzazione criminale – si legge nell’ordinanza – dedita alla commissione di un numero indeterminato di delitti di importazione e successiva distribuzione di ingenti quantitativi di cocaina».
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A guidarli è Lulzim Daiu «capo e organizzatore» che coordinava «i rapporti tra i detentori dello stupefacente all’estero e i corrieri incaricati del trasporto e successiva distribuzione sul territorio italiano». Dopo sei giorni dagli arresti, Piscitelli viene freddato mentre gli affari del gruppo criminale proseguono fino all’8 gennaio scorso quando sempre la Mobile arresta in una seconda “Aquila Nera” altre 4 persone.
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Tra loro, stavolta, c’è anche Fabrizio Fabietti già in carcere dal novembre scorso dopo gli arresti della Guardia di Finanza nell’operazione “Grande raccordo criminale” nella quale emergeva insieme a Piscitelli come “dominus” di una fitta organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di stupefacenti. Sempre quel Fabietti che la sera dell’omicidio di Diabolik, come hanno chiarito le indagini, si trovava al Tuscolano a pochi metri da via Lemonia e da quella panchina dove il suo socio è stato ucciso. E che potrebbe spiegare agli investigatori se dietro la morte del Diablo ci sia proprio una vendetta per le soffiate che hanno portato gli investigatori sulle tracce degli albanesi e non solo.