Federica Angeli e Maria Elena Vincenzi per la Repubblica
rebibbia
A tre giorni dalla tragedia che si è consumata nella sezione nido del carcere romano di Rebibbia cominciano a delinearsi i contorni di una vicenda composta da una catena infinita di "e se".
Anello dopo anello si comprende meglio che se Alice Sebesta, la donna tedesca di 33 anni che ha ucciso la figlia di 7 mesi e il primogenito di 2 anni gettandoli dalle scale, avesse avuto una residenza, se si fossero rispettati i dettami della legge 62/2011, se il gip non avesse negato le istanze del suo difensore e se qualcuno non avesse ignorato due segnalazioni sulle sue condizioni mentali, oggi forse quei due piccoli innocenti sarebbero ancora in vita. E non si tratta di ragionare col senno di poi. Ma solo di capire l' epilogo di una vicenda a partire dalle sue innegabili contraddizioni che, al momento, hanno portato alla sospensione di direttrice, vicedirettrice e vicedirigente della penitenziaria di Rebibbia.
Il 26 agosto Alice viene arrestata dai carabinieri della compagnia Roma Centro. Era vicino alla stazione Termini in un' auto insieme a due nigeriani e ai suoi due figli.
Passava per Roma e aveva con sé 10 chili di marijuana. Quando i militari l' hanno fermata ha dichiarato che quella droga era tutta sua.
rebibbia
Il gip in 24 ore convalida l' arresto per detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. E qui si consuma la prima " violazione". La donna è di passaggio nella capitale, è domiciliata in Germania e a Roma non ha un casa. Motivo per cui - a differenza di quanto previsto dall' articolo 146 del codice penale - malgrado Alice abbia due bambini e malgrado il suo avvocato chieda l' obbligo di firma, il giudice stabilisce che debba andare in carcere.
Il domicilio negato La donna arriva a Rebibbia il 28 agosto, nella "sezione nido". Il suo difensore, Andrea Palmiero, presenta il 4 settembre istanza di scarcerazione trovandole un domicilio in cui la donna possa scontare la detenzione preventiva. Alice è anche incensurata. Tre giorni dopo il gip rigetta la richiesta. Nella motivazione scrive che non vi era nessun elemento nuovo per permettere alla madre di tornare libera. Trascurando che in quella istanza veniva fornito un indirizzo, che Alice aveva un casa dove andare con i suoi bambini. E che quello era il motivo per cui, di fatto, era finita dentro.
La struttura inadeguata E così Alice e i suoi due figli minorenni rimangono a Rebibbia, anche se la legge 62 del 2011 è al riguardo chiara. La donna avrebbe dovuto, nelle sue condizioni giudiziarie e in quanto mamma, abitare in una struttura fuori dal carcere, in un Icam ( istituto a custodia attenuata per detenuti madri), ossia il livello intermedio tra la sezione nido del carcere ( riservata per legge a mafiose e terroriste) e la casa protetta ( per reati minori). L' I-cam però a Roma non c' è, dunque per Alice Sebesta si è scelta la soluzione Rebibbia, quella più dura.
carcere rebibbia
Gli allarmi ignorati «La detenuta era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli» e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato « la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico». A scriverlo è il capo del Dap, Francesco Basentini. Al momento del suo arrivo, Alice ha un colloquio con la psicologa che lavora in carcere: la dottoressa non ravvisa niente di particolare. Ad accorgersi di piccole note stonate nel comportamento della donna sono le agenti penitenziarie. Che in due segnalazioni, indirizzate ai vertici del penitenziario, raccontano due episodi. Il primo parla di un atteggiamento " strano" rispetto al nutrimento del neonato. La donna, che allatta ancora, usa il tiralatte ed è lei stessa a berlo invece di darlo alla piccola. La seconda viene redatta il giorno prima della tragedia.(...)
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