6 Novembre 1966, esattamente 53 anni fa Teatro delle Muse a Roma, replica de “Il Rosa e Nero”. C'è un solo spettatore in sala: Theodor Adorno. Carmelo Bene recita solo per lui: “Il diavolo del teatro italiano e il filosofo della musica contemporanea”, così li presenta l’uno all'altro nell'intervallo dello spettacolo Silvano Bussotti.
Carmelo Bene oggi avrebbe da poco compiuti 82 anni.
Elogio di Carmelo Bene di Giancarlo Dotto (a dieci anni dalla sua morte)/ 2
– Tullio Pieronti Editore
Bene wn
Carmelo Bene e Giancarlo Dotto
Ho passato non so quante notti nella tua casa romana di Via Aventina, il tuo Tibet dannunziano, impregnato dei tuoi odori, che prima erano quelli aspri delle Gitanes e poi quelli dolciastri delle sigarette alle erbe medicinali e delle bevande iperzuccherate, il riscaldamento a palla, nella semioscurità, perché la luce del giorno ti era odiosa, solo candele e lucerne dipinte a mano, tanto Settecento tra specchi, sofà e cornici, sugheri ancora sudati di Montelpulciano che galleggiavano sul marmo del tavolo, Avignonesi ’90, il tuo preferito.
carmelo bene
Maniacalmente lanciato nelle tue imprese o chiuso e farfugliante nel tuo “fuori di sè”, quello dei monaci di clausura. Quando avevi preso a dipingere in modo parossistico nella tua casa all’Aventino. Quadri che hai fatto vedere solo a pochi intimi. Ti avevano operato da poco al cuore e tu, sprezzando le prescrizioni dei medici, tiravi cocaina e spalmavi su tela colori come un forsennato. Fino a quando mi dicesti, una sera: “Ho smesso, perché ho capito che non avrei mai potuto superare la grandezza di Francis Bacon”.
E quella volta che ti ho visto piangere per la morte del tuo “amico” gatto. Eri tornato da un seminario con gli studenti al Teatro Valle, dov’eri andato di malavoglia. Ti eri congedato con la tua solita, delicata brutalità. “Ora voi tornerete a casa e potrete raccontare di aver ascoltato Carmelo Bene, ma io che mi racconto?”.
carmelo bene
Ti sei dovuto raccontare del tuo gatto, quello che da sempre veniva a bussare alla tua finestra quando aveva fame, trovato tra il gazebo e un grande vaso panciuto, come un cencio dimenticato, gli occhi sbarrati, morto, forse avvelenato. Non volevo credere ai miei occhi, ai tuoi occhi bagnati. Ti avevo visto piangere solo in scena, mai nella vita. Solo il pudore mi ha impedito di abbracciarti.
L’ho sempre saputo: disumano per eccesso di umanità, combattente irriducibile per quanto consapevole della sconfitta. Tutto era un ring per te. Come quella notte, nella tua camera a Otranto, insieme a guardare un film sulla vita di John Holmes, il divo dei pornoattori. Tu mollemente sdraiato su un fianco, il dormiveglia degli insonni, quando Holmes, rispondendo all’intervistatore, dice: “Quante donne ho avuto? Almeno 14 mila!” e tu, Carmelo, alzandoti di scatto, indignato, come toccato da una scossa a mille volts: “Ma come, se persino io non sono arrivato a 5 mila?!”.
bene
La sepolcrale camera da letto, il Polifemo, un 37 pollici acceso giorno e notte, acceso e ignorato, sulla tua cronica insonnia. Lo squarcio sul petto. Lo portavi con la solita eleganza. Cicatrice che avrebbe fatto invidia a Tamerlano, degna di una vittima dello Squartatore. Memoria del bisturi che ti aveva aperto per sistemarti quattro by-pass a sostegno di un cuore malandato. “…L’uomo non sopporta di vivere tanto a lungo. Due cose l’uomo non sa fare, lavorare e vivere”. Mi dicevi.
In tournée con Carmelo
giancarlo dotto e carmelo bene
Ho passato le ore a spiarti, dietro le quinte, tu in scena a smaniare travestito da Pinocchio, i nasi che andavano e venivano, io che ti passavo i risultati del Milan e le corde per impiccarti. E in camerino, prima e dopo lo spettacolo, nelle tante notti insonni e deliranti. Quella della prova generale al Teatro Verdi di Pisa, quando hai preteso di riverniciare per l’ennesima volta quinte e fondali, aggiungendo il porpora al rosso, attorniato da attori e maestranze stremate, più morte che vive.
carmelo bene
Le lezioni agli attori, a quello che restava di loro, cancellati nelle maschere e nel playback. “Dovete essermi riconoscenti. Se vi privo della voce, se vi nego l’espressione, è per consentirvi di non essere più attori del basso genere umano”. “Non essendo, l’attore è ovunque, il parco lampade, l’amplificazione, i suoi tecnici, un monitor o un arco elettronico. Non si dà attore se non è capace di giocare simultaneamente su più microfoni o intersezioni di luce. Mi spiego peggio: nel mio teatro gli attori non sono più che distrazioni della luce o del suono”.
Carmelo Bene e Giancarlo Dotto
“Odiatevi in scena, non cavatevela con una gag. Tentate il suicidio almeno cinque volte, prima di sparire per un gesto della fatina. Tu attore non sei che vittima nella mia scena, sbarazzati di te, fatti male. Tu attore, fatti danno!”. Agli spettatori violentati dal suono. “Io non riferisco, ferisco. Userei la stessa amplificazione anche se recitassi in una stanza per una persona sola”. Ai critici negati. “I signori macchinisti sono gli unici cui riconosco il diritto di critica al mio spettacolo”.
Carmelo Bene e Giancarlo Dotto
Mi manchi. Mi manchi come di più non si può mancare. Dove c’eri tu, c’era la massima incandescenza e c’era il massimo delle tenebre. Quella volta che mi hai detto: “Per la prima volta ho trovato un altro me stesso”. Era il 6 novembre del 1981, a cena a Pisa, io e te soli, il ragazzo adorante e il vampiro gentile. Non era vero, eravamo tanto diversi, ma avevamo cose intime da scambiarci, due bambini che si dilettavano e si disgustavano delle stesse cose. Cose mai più condivise con nessun altro.
Ma tu eri l’eroe, il genio in debito eterno con se stesso, io una delicata patologia dispersa nel mondo. Tu eri la sfida permanente. Ti spiavo nelle notti estive a Forte dei Marmi, nelle interminabili partite, io e te in coppia, tu che t’inventavi un ping pong tutto tuo, come avrebbe potuto giocarlo Pinocchio, legnoso e leggiadro allo stesso tempo, di aitanti smash e acrobazie improvvise alla Nijinskij.
ruggero orlando 1
Davanti alla tivù a tifare Brasile nei mondiali dell’82. Quando ti convincemmo a fatica che non era il caso di diffondere l’inno tedesco a tutto volume per il Forte, dopo la finale vinta dagli azzurri, che ci avrebbero linciato. Carmelo ce l’aveva con l’Italia dei Rossi e dei Conti, perché aveva estromesso dal mondiale le divinità brasiliane del calcio, Zico, Falcao e compagni.
E poi quella notte, era il 19 settembre, che un barcollante Ruggero Orlando filtrò dal cancello semichiuso di Villa Beatrice, la bottiglia di scotch in pugno e, poggiandosi precario ai fusti indovinati al buio, accostandosi al tavolo da gioco, disse: “Caro Carmelo...ho saputo che sei apparso alla Madonna!”.
2.continua