Riceviamo e pubblichiamo:
Caro Dago,
le infinite interviste di Veltroni sul Corriere hanno la caratteristica di essere un catalogo (immaginario, perciò spesso noioso) di politically correct. Ci si poteva aspettare un brivido di autenticità nel caso di Emma Bonino, vista la storia politica che ha visto contrapposti per decenni radicali e comunisti. A partire da quando la Bonino ha iniziato la sua carriera parlamentare (record acrobatico: siamo alla vigilia del mezzo secolo di ininterrotta occupazione di poltrone e cariche istituzionali).
PANNELLA ULTIMO SALUTO PIAZZA NAVONA BONINO
Contro il PCI, Pannella, e la Bonino a ruota, hanno condotto battaglie memorabili. Giustamente, aggiungo. Veltroni era da quelle parti, ma naturalmente non le ricorda. Il caso diventa esilarante a proposito della ri-elezione della Bonino in Parlamento con Berlusconi ("Ci stetti poco").
Infatti: dopo poco, lo stesso Cavaliere la nominò Commissario Europeo a Bruxelles. Se la Bonino parla malvolentieri del perché Pannella le aveva tolto fiducia e saluto negli ultimi anni prima di morire, è forse proprio perché Marco era insofferente al politically correct, poco disponibile all'arte di accomodarsi. E morì senza dimenticare quando i radicali, sempre disobbedienti, avevano preferito Berlusconi ai (post)comunisti. E ai salotti.
Un vecchio forzista
EMMA BONINO: «FIERA DI QUELLE SCUSE A GIOVANNI LEONE. CON ABORTO E DIVORZIO CAMBIAMMO L’ITALIA»
Walter Veltroni per il ''Corriere della Sera''
Emma Bonino, la prima cosa che volevo chiederti è un ricordo del rapimento Moro.
pannella bonino
«Vivevo in via Giulia e Adelaide Aglietta, che abitava con me, aveva già accettato di fare la giudice al processo contro le Brigate rosse. Mi comunicarono la notizia e io dovetti darla a lei che era a Torino. Adelaide, allora segretaria dei radicali, aveva fatto una scelta molto coraggiosa. Era stata sorteggiata come giudice popolare e non aveva rinunciato. C’era stata nei giorni precedenti una fuga di giurati da quel processo. In cento avevano rinunciato, per timore di rappresaglie.
Sembrava impossibile formare il collegio. Fu grazie a lei che finalmente si costituì la giuria popolare. Conoscemmo in quei giorni una serie di ipocrisie: tutti i segretari dei partiti assicurarono che “fosse toccato a me l’avrei fatto anch’io”. Adelaide rifiutò la scorta perché pensava di essere più protetta dalla nonviolenza e dal suo modo di essere e quindi rimase a Torino. Nei giorni di Moro io ero veramente giovane. Ero appena entrata in Parlamento e il mio obiettivo, quasi la mia ossessione, era conquistare la legalizzazione dell’aborto. La politica per me allora era quello, solo dopo mi sono appassionata ad altro».
Le lettere di Moro? Voi foste tra i pochi a non cedere alla tesi della pura manipolazione.
pannella bonino
«La crisi fu affrontata, per noi, da Pannella e Spadaccia, da quella generazione di radicali. In generale quella crisi fu gestita solo da uomini, la politica italiana era ancora più maschilista di oggi. Si discusse persino se pubblicarle o no, quelle lettere. Era un teorema: le lettere non sono di Moro, sono estorte, quindi non bisogna divulgarle. Moro fu delegittimato da vivo, da prigioniero dei terroristi. Lui cercava di svolgere la sua visione della politica e dello Stato e i partiti gettavano nel cestino le sue missive. Marco, Sciascia, Jannuzzi e un giro socialista si opposero a questa versione e cercarono una soluzione politica. Perdemmo, nel senso che passò la linea della fermezza. Ero convinta allora, lo sono ancora di più di oggi, dopo aver conosciuto tanti conflitti e tante guerre: con il nemico si dialoga. È sempre il dialogo la via della pace».
Chi realizzò quell’operazione? Le Br da sole o con altri?
«Io ho l’impressione le Br da sole, perché altri non se ne sono mai trovati. Ma quello che è certo è che in quei giorni sono fioccati depistaggi di varia natura».
Quando Giovanni Leone compì novant’anni, tu e Pannella gli scriveste una lettera di scuse per la campagna ingiusta che aveva portato alle sue dimissioni. Un gesto raro e prezioso.
consultazioni emma bonino
«Allora la spinta, sullo scandalo della Lockheed, era dell’Espresso: Cederna, Gigi Melega. Noi svolgemmo un’attività parlamentare con interrogazioni e richieste di dimissioni. Era il periodo in cui i radicali erano molto impegnati contro il finanziamento pubblico ai partiti. E quindi quella vicenda si incrociava con quella campagna. Io la seguii poco perché mi stavo preparando per le elezioni europee che mi portarono nella prima assemblea continentale eletta dal popolo: c’erano Spinelli, Simone Veil, Amendola...».
Leone fu vittima del giustizialismo.
«Una delle tante. Una vittima ante litteram».
Paradossalmente proprio da voi, che siete sempre stati i nemici del giustizialismo...
emma bonino aborto legge 194
«Sì, però con la capacità, seppure anni dopo, di riconoscerlo. Ricordo che Marco lo andò a trovare. Avevamo sbagliato. Riconoscerlo fu un atto di onestà, credo rara. Era stata una campagna ingiusta. Ricordo la Cederna sul caso Tortora. Disse: “Se arrestano uno alle tre di notte in questo modo di certo qualcosa avrà fatto”».
Ecco, parliamo di Tortora...
«Siamo nel 1983. Enzo viene arrestato con grande clamore. Jannuzzi, Sciascia e soprattutto Montanelli ci convinsero che non era possibile lui fosse colpevole di nulla. Lo conoscevano, lo stimavano. Avevano ragione. Tortora finisce agli arresti domiciliari, arrivano le elezioni europee del 1984. Marco disse in una riunione: “Ma perché non lo candidiamo al Parlamento Europeo e portiamo il caso mala giustizia in Europa?”. Enzo Biagi era totalmente contrario. L’ultimo giorno utile per la presentazione delle liste Marco mi manda a Milano a casa di Enzo, con l’obiettivo di convincerlo. “Ricordati che è sabato, devi andare con un notaio e tornare in tempo utile”.
DELLA VEDOVA BONINO TABACCI
Vado. Lo trovo insieme a Enzo Biagi, che era un suo sincero amico e sua moglie Francesca. L’atmosfera era gelida. Io poi non lo conoscevo e nessuno mi filava. Ero una ragazzina. Ad un certo punto presi coraggio e dissi: “Enzo, ci parliamo un attimo?”. Mi resi subito conto che lui era più convinto di me. Resisteva per dato amichevole, ambientale, Francesca era contenta. Mi disse “Io lo vedevo morire in casa, senza fare niente”. E iniziò la prima campagna elettorale via Radio Radicale. Lui interveniva da Milano ed era bravissimo. La campagna decollò, in questo modo strano. Un po’ come oggi col lockdown.
Enzo venne eletto. Gli avevamo promesso di organizzare un grosso convegno al Parlamento Europeo sulla giustizia. Enzo non era di facile carattere. Ma io ero abituata ai caratteri difficili, da mio padre a Pannella, a Sciascia. Ricordo che per quel convegno scrivemmo una lettera a tutti i colleghi dicendo “Vi invitiamo perché nel nostro Paese si può stare agli arresti provvisori anche per mesi, anni prima che arrivi il processo”. Ricordo che mi chiamarono due o tre colleghi britannici: “Veniamo volentieri, però guarda che c’è un errore. Nella tua lettera tu dici mesi e settimane. Devi aver sbagliato, forse volevi dire tre o quattro giorni”. Per loro era impensabile. Enzo svolse l’attività parlamentare con grande serietà e poi decise di consegnarsi. Andò a processo. C’erano diciassette pentiti, tutti omologati, tutti allineati sulla versione che era stata suggerita. Nessuno aveva fatto accertamenti. Nessuno. Poi c’era l’agendina del camorrista in cui c’era scritto Tortora. Invece era Tortosa. Fino alla fine Enzo disse: “Io sono innocente spero che lo siate anche voi”. Morì due anni dopo».
BONINO TABACCI
Perché fecero quella operazione su Tortora?
«Io non so perché scelsero Tortora. Era la prima vittima celebre del giustizialismo, della spettacolarizzazione. Fu un’inchiesta condotta in modo scandaloso. Senza verifiche, accertamenti. Contava solo la versione dei pentiti. Ma quei giudici hanno fatto carriera».
Perché la cultura laica e dei diritti alla quale tu hai sempre fatto riferimento non è mai stata maggioritaria?
«La cultura liberale o la cultura delle libertà personali e dei diritti individuali, l’individuo come centro della società, era totalmente estranea a quella della Dc che era: “Soffrite in terra e poi andrete in paradiso” e del Pci che era: “No, contano sono le masse”. E quindi dal loro punto di vista i temi che noi sollevavamo, la giustizia, il divorzio, l’aborto, erano frivolezze radical-chic. Per il Pci la politica si faceva solo nelle fabbriche. I radicali erano una puntura di spillo, molto fastidiosa. Avevamo al centro l’individuo come protagonista, i diritti civili che consideravamo alla stessa stregua di quelli sociali. Una differenza d’impostazione culturale. Era anche difficile dialogare. Non perché la lotta all’aborto clandestino non andasse bene, ma non era una priorità. Non perché la giustizia giusta non andasse bene, ma non era una priorità».
enzo tortora
Non erano questioni sociali...
«Io ho sempre tentato di spiegare che i diritti civili sono questioni sociali perché se hai i soldi per divorziare trovi la Sacra Rota o vai a Londra. Quindi per me sono diritti sociali, sono problemi sociali, tasse umane e finanziarie. Indirette o dirette. La mia idea mi differenziava un po’ dal Movimento femminista al quale arrivo tardi. Non sono mai stata separatista. Sono sempre stata convinta che il personale è politico ma il privato non è pubblico. Oggi constato, dopo vent’anni, che è l’inverso. Cioè che il privato è inopinatamente e inutilmente pubblico. E il personale non è più politico».
Il giorno in cui spararono a Giovanni Paolo II , nello stesso momento, a Piazza del Popolo a Roma si riunivano i leader del fronte laico che sosteneva il no all’abrogazione della legge sull’aborto. Era un fronte ampio...
«La vittoria sul divorzio, di cui Mauro Mellini fu un protagonista, è stato uno dei più potenti cambiamenti della storia civile italiana. Da lì in poi la società si è come liberata da catene antiche. E non si è più tornati indietro. Sull’aborto si determinò uno schieramento largo che sconfisse l’integralismo democristiano e della destra. L’aborto era una piaga sociale troppo dolorosa, non solo fisicamente ma per la coscienza. In pochi anni cambia tutto, sul piano dei diritti individuali. Cambia la vita. Guarda quante riforme si è portato dietro quel periodo: il voto ai diciottenni, l’obiezione di coscienza, la fine del servizio militare obbligatorio, la riforma del codice di famiglia. È difficile negare che le nostre battaglie abbiano cambiato il volto e il modo di vivere di milioni di italiani».
enzo tortora a portobello
Voi siete stati, in sostanza, protagonisti della secolarizzazione di questo Paese?
«Marco aveva una grande attenzione alla religiosità. Spadaccia non ne parliamo. Io non riuscivo a capire. Come me Adelaide. Loro erano attentissimi alla religiosità come diritto individuale. Il diritto a credere in quello che si vuole, il contrario dell’integralismo. Come vedi si intreccia una serie di filoni ma alla fine il tema è sempre lo stesso: il diritto di scelta. Il diritto di scelta non regala la felicità, anzi a volte scegliere è molto doloroso. Ma l’obiettivo della mia esistenza è sempre stato quello di combattere gli ostacoli alla possibilità, per ciascuno, di scegliere in modo autonomo e sovrano la propria vita. Per questo ho combattuto le mutilazioni genitali femminili, per questo sento tanto la questione migranti. I campi profughi io li ho visti, nella regione dei Grandi Laghi e me li ricordo a Tuzla, dopo la caduta di Srebrenica. È per questo che non riesco ad accettare le stragi dei migranti in mare o l’idea di rimandarli a morire da dove fuggono. Come fossero pacchi infetti e non esseri umani».
Ho conosciuto Adelaide Aglietta ed avevo una gran stima di lei. Mi sembrava una donna di grandi principi e grandi qualità umane e politiche. Me ne parli?
«Adelaide era diversa da me. Più spigolosa, più chiusa, tipicamente piemontese, poco incline alla fisicità. Come mio padre. Ricordo che da bambina mi sedevo sulle sue ginocchia e lui non sapeva mai dove mettere le mani, non aveva idea di come si abbracciasse una creatura. Adelaide era molto rigorosa e molto coraggiosa. Lei divenne segretaria del partito e poi, in Parlamento Europeo, entrò nel gruppo Verde di cui fu copresidente. Noi avevamo sfiorato l’ecologia col referendum sul nucleare ma lei capì prima di altri la centralità della questione ambientale. Poi si è ammalata. Io ricorderò sempre la sua forza, continuava a venire al Parlamento Europeo. Abitava a Bruxelles, era curata a Parigi. Io la guardavo ammirata: veniva senza capelli e con tanta determinazione. Anche a me Adelaide piaceva. Molto».
BERLUSCONI GIANNI LETTA PAOLO ROMANI VISITANO MARCO PANNELLA -4
Con Pannella tu hai avuto un rapporto complicato...
«Degli ultimi due anni non voglio parlare, perché non sono pronta. Per me l’ultima fase del nostro rapporto è stata dolorosa e difficile. La storia della nostra amicizia e della solidarietà umana e politica tra noi è lunga. Marco, dopo un po’, prese atto che potevamo essere sinergici, senza che io mi dovessi annullare. Io amavo studiare più di lui, ero più ordinata di lui, ma sono sempre stata meno fantasiosa di lui. Se guardavi la sua scrivania e la mia vedevi una differenza di struttura mentale oltre che, ovviamente, di generazione. Ad esempio io sono più anglofila, lui era più francofilo. Avevamo trovato un equilibrio: governavamo le tensioni, governavamo le differenze, lui prendeva atto che io sono un po’ permalosa e che soprattutto misuro le parole, che per me sono pietre. L’ho accompagnato, per convinzione, nella lotta contro lo sterminio per fame, lui ha accompagnato me con convinzione sulla Corte penale internazionale, sulla ex Jugoslavia».
Differenti ma uniti e solidali: un modello in un tempo in cui ad ogni differenza corrisponde una scissione...
«Una volta c’era un mio amico che disse: “Io a questi leghisti gli toglierei il diritto di voto”. Marco gli fece una lezione di democrazia: “Guarda che la democrazia non è pensarla tutti allo stesso modo, è stabilire insieme le regole per cui ognuno ha la possibilità di esprimersi. Evitando sempre la dittatura della maggioranza”. Perché la democrazia è la tutela delle minoranze, non è la dittatura della maggioranza. E lo Stato di diritto è quello che aiuta i più fragili. È l’unica protezione che hanno. I potenti non ne hanno bisogno, ci pensano loro. Poi arriva un momento in cui anche loro scoprono che lo Stato di diritto è come l’aria, ti rendi conto della sua indispensabilità solo quando non ce n’è più. Il mio rapporto con Marco, difficile e bellissimo, è durato anni. Abbiamo saputo governare le nostre differenze. Per questo gli ultimi due anni, in cui non siamo più riusciti a farlo, mi provocano un dolore lancinante».
Perché nel ’94 vi candidaste con Berlusconi? Sorprese molti.
«Uscivamo da Tangentopoli e Berlusconi, che cercava di interpretare a suo favore il vento di protesta e il bisogno di cambiamento, voleva tutte facce nuove. Si rese conto però che aveva bisogno di qualche professionalità, ancorché stravagante, e offrì a Marco, senza contraccambi, otto collegi. Io ci stetti poco. Perché Marco ottenne, dopo un anno, che Berlusconi mi mandasse a fare la Commissaria in Europa. L’alleanza con Forza Italia si concluse a Pasqua. E poi, nel ‘96, Pannella ruppe con Berlusconi, perché voleva imbarcare anche i democristiani».
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Tu prendesti una posizione coraggiosa a sostegno di un intervento militare in Kosovo.
«Fu decisiva la ripetuta vista dei campi profughi. Nell’agosto ‘98 vengo informata che in Kosovo c’era un tentativo molto evidente di pulizia etnica. Una notte, ero in missione lì, la mia assistente mi dice: “Venga a vedere”. In un fiume un po’ secco, era estate, c’erano i corpi di migliaia di kosovari che erano stati fatti scendere dal treno e con i fucili dietro obbligati a correre. Bisognava fermare quello sterminio. Le trattative non riuscivano a fermare i massacri. Serviva un intervento militare che mettesse fine a quelle esecuzioni di massa, a quell’odio che stava distruggendo vite e tessuto civile. Per questo sostenni con convinzione l’intervento in Kosovo».
C’è un momento di tutti questi anni della tua vita politica che vorresti rivivere?
«Sì, le elezioni del 1999. Sarà banale, ma è così».
L’8,5 per cento. Cosa significò per te?
«Che, finalmente, da minoranza fastidiosa potevamo influire sulla vita politica, sia a destra che a sinistra. E quindi uno spiraglio di affermazione di una cultura liberalsocialista. Io sono una liberale alla Beveridge, non alla Thatcher. La mia attenzione ai più fragili non è caritatevole, a parte il fatto che avere un po’ di cuore non so perché debba essere considerato un reato. La campagna elettorale del 1999 la costruì interamente Marco. Io non c’ero fisicamente, mi occupavo di un milione di rifugiati dal Kosovo. Marco si inventò tutto e vendette parte del patrimonio per finanziare gli spot televisivi. Quello dei risultati fu un bel giorno. Sembrava possibile che il nostro messaggio potesse, finalmente, conquistare un Paese mutato».
Dammi un giudizio su De Mita, Craxi e Berlinguer.
«Per quanto possa sembrare incredibile non ho mai scambiato neppure una battuta con nessuno dei tre».
Cosa è stato l’ideale europeo per Emma Bonino?
BERLUSCONI CON PANNELLA
«Questo ci tengo a dirlo: l’Europa è il nostro unico destino, non ce ne sono altri. Io penso che questo Paese debba smetterla di giocare col fuoco. Diversamente dalla crisi del 2008, in quattro settimane ho visto succedere in Europa cose mai accadute prima. Invece noi continuiamo imperterriti: Mes sì, Mes no. Stupidaggini infinite, che però ci screditano in Europa. L’altro giorno un mio amico portoghese mi ha detto: “Scusate, se fate tanto gli schizzinosi sul Mes, perché dovremmo affrettarci a darvi i soldi che vi servono?”».
Gli Stati Uniti d’Europa rimangono la prospettiva?
«L’unica. Anche perché io non conosco altro sistema che possa tenere insieme cinquecento milioni di abitanti rispettando le loro diversità. Stati Uniti d’Europa con poche competenze al centro, solo quelle che sono più efficaci e che vengano fatte insieme. E poi molta sussidiarietà. Perché dobbiamo unire le persone, ma senza mai omologarle».