Carlo Ciavoni per repubblica.it
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Ci vorranno meno di trent'anni prima che almeno 216 milioni di persone dovranno scegliere di scappare dai luoghi dove sono nate e dove hanno messo radici spinti dalle conseguenze di cambiamenti climatici divenuti insopportabili, sia per le temperature, che per la violenza e la frequenza dei fenomeni meteo-climatici.
Lo spiega bene un articolo di Antonella Sinopoli su Nigrizia, dove si apprende che "Il numero più alto di queste moderne migrazioni di massa, interesserà – e già sta avvenendo – l’Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone in fuga, il 4,2% della popolazione totale. Si parla di 49 milioni per l’Asia orientale e l’area del Pacifico, 40 milioni per l’Asia meridionale e poi a seguire con percentuali più basse, ma non per questo meno drammatiche, il Nord Africa, l’America latina e anche la vecchia Europa, soprattutto l’Est europeo".
Il possibile raddoppio di chi vive d'assistenza. "Il cambiamento climatico è la crisi che caratterizza il nostro tempo e colpisce le persone costrette alla fuga": è quanto afferma Andrew Harper, Consigliere Speciale dell’UNHCR sull’Azione per il Clima, e spiega il legame tra riscaldamento globale e migrazioni forzate, mettendo l'accento sull’importanza di intervenire con tempestività, ora. Subito.
Nel 2019, i rischi legati a eventi meteorologici hanno costretto alla fuga circa 25 milioni di persone in 140 Paesi. Le ricerche effettuate ribadiscono che senza misure per proteggere il clima e ridurre il rischio di catastrofi, i disastri climatici potrebbero raddoppiare il numero di persone bisognose di assistenza umanitaria, con una media di oltre 200 milioni ogni anno, entro il 2050.
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Andrew Harper, durante un incontro a Ginevra con Tim Gaynor, redattore del sito internazionale dell’UNHCR, ha valutato la situazione attuale e le misure che le Nazioni Unite, assieme ai partner dell'Agenzia per i rifugiati devono attuare subito per non essere sopraffatti.
Allarma la rapidità con la quale i cambiamenti avvengono. Sul sito dell'UNHCR, dunque, si è sviluppato un ragionamento sul forte nesso tra il clima che sta cambiando e i grandi movimenti migratori.
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Prima di tutto è messa in risalto la rapidità con la quale il riscaldamento globale, gli eventi meteorologici estremi, le piogge violente, improvvise e concentrate solo su porzioni limitate di territorio, aggiunte alla siccità, alle ondate di caldo, alle tempeste tropicali... ecco, tutto questo, sta diventando più imprevedibile e pericoloso, proprio per il rischio che nel breve e lungo termine ulteriori calamità, come inondazioni, smottamenti, erosione, incendi e desertificazione, possano diventare sempre più frequenti e sempre più disastrosi.
Nello stesso tempo, viene ribadito come si stia già assistendo nel mondo all’innalzamento del livello del mare, a inondazioni costiere, all’erosione, alla salinizzazione del terreno, con il pericolo di esondazioni permanenti nelle aree a bassa quota, con tutte le conseguenze immaginabili per le coltivazioni e, dunque, per la sicurezza alimentare di intere regioni del Pianeta.
Le persone più colpite. Le persone e le comunità vulnerabili stanno già subendo gli effetti di queste veloci convulsioni climatiche, vuoi nel settore alimentare, che in quello idrico, nei terreni coltivabili e su altri servizi ecosistemici necessari alla salute umana, al sostentamento, agli insediamenti e alla sopravvivenza. E sono, ancora una volta, soprattutto le donne, i bambini, gli anziani, le persone con disabilità e popolazioni indigene a dover fare i conti con tutto questo. Quando si parla di "resilienza", si allude sempre alla capacità degli esseri umani di superare situazioni difficili e ostili attraverso gli aiuti umanitari oppure con "semplici" e temporanee migrazioni. Ma alle "strattonate" del clima, alle condizioni insopportabili cui sottopone milioni di persone, la resilienza diventa assai più difficile. Oltre tutto - sempre secondo l'UNHCR - in sette Paesi su dieci tra i più vulnerabili e meno preparati ad affrontare i mutamenti del clima, sono in corso sanguinosi e interminabili conflitti.
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Nel Sahel le conseguenze più dure e ravvicinate. Secondo le valutazioni dell'Agenzia ONU per i rifugiati, è la regione del Sahel quella che subirà prima di altri gli effetti dei cambiamenti climatici in atto. A questa conclusione si è giunti analizzando le fragili condizioni dei governi dell'intera estesissima area, ma soprattutto l'aumento esponenziale della popolazione in tutta quella fascia del continente africano, che si estende tra il deserto del Sahara (a Nord)
la savana del Sudan a Sud, l'oceano Atlantico a Ovest e il Mar Rosso a Est, che copre (da Occidente a Oriente) gli Stati della Gambia, Senegal, la parte Sud della Mauritania, il centro del Mali, Burkina Faso, la parte Sud dell'Algeria e del Niger, la parte Nord della Nigeria e del Camerun, la parte centrale del Ciad, il Sud del Sudan, il Nord del Sud Sudan e l'Eritrea. Le previsioni dicono che il numero degli abitanti raddoppierà nei prossimi 20-30 anni, mentre - secondo la Banca Mondiale - si potrà registrare un calo ulteriore di produttività del territorio, oscillante tra il 30 e il 40%.
L'ALTRA FACCIA DELL'EMERGENZA CLIMATICA
Francesca Santolini per "la Stampa"
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La vera emergenza migranti non è quella di cui parla la propaganda populista, ma quella che potrebbe abbattersi sull'Europa se non verranno governati gli sconvolgimenti meteo-climatici che già oggi attraversano il pianeta. E che domani rischiano di capovolgere gli equilibri geopolitici della comunità internazionale e i rapporti sociali ed economici dei Paesi occidentali.
Stando ai dati presentati nell'ultimo rapporto della Banca Mondiale Growndshell entro il 2050 almeno 216 milioni di persone saranno costrette a migrare a causa del cambiamento climatico e delle sue conseguenze. La quota più alta di queste migrazioni forzate, interesserà l'Africa sub-sahariana: 86 milioni di persone in fuga, il 4,2% della popolazione totale.
E ancora 49 milioni di persone per l'Asia orientale e l'area del Pacifico, 40 milioni per l'Asia meridionale e poi a seguire con percentuali più basse, ma non per questo meno gravi, il Nord Africa, l'America latina e anche il vecchio continente, soprattutto l'Est europeo. Una fotografia inquietante di cosa ci attende di qui a qualche anno, se i governi non sapranno trovare le risposte giuste alla più drammatica emergenza del nostro tempo.
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Gli scenari delineati dal rapporto lasciano tuttavia uno spiraglio di speranza: il numero di persone costrette a lasciare le proprie case potrebbe ridursi dell'80%, se si procedesse alla riduzione dei gas serra e se si cominciasse a lavorare a piani di sviluppo realmente green. In caso contrario nei prossimi trent' anni singoli individui e intere comunità diverranno migranti climatici: un esercito di esseri umani in fuga da catastrofi naturali, dalla perdita di territorio dovuto all'innalzamento del livello del mare, dalla siccità, dalla desertificazione, dai conflitti per l'accaparramento delle risorse idriche o energetiche.
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Eventi estremi come inondazioni, tifoni, lunghi periodi di siccità, provocheranno la progressiva riduzione di aree da coltivare. Quando viene meno l'accesso a terra, acqua e mezzi di sussistenza, la migrazione diventa una forma estrema di adattamento. Tutto questo si sta manifestando molto velocemente, più di quanto previsto in precedenza.
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Basti pensare che, solo tre anni fa, il primo rapporto Groundswell della Banca mondiale prevedeva che, entro il 2050, il cambiamento climatico avrebbe provocato la migrazione di 143 milioni di persone in tre regioni del pianeta: Asia meridionale, America Latina e Africa sub-sahariana.
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L'impatto della crisi climatica non colpirà solo le zone più povere del pianeta. Gli effetti nefasti del cambiamento climatico stanno già portando a migrazioni interne anche nei Paesi avanzati e coinvolgendo la classe sociale medio-alta. Un fenomeno che ha già avuto inizio negli Stati Uniti, dove l'aumento del livello del mare sta causando ondate di gentrificazione nelle città più vulnerabili al clima, con un conseguente spostamento della popolazione più ricca verso quartieri popolari, situati in aree delle città meno esposte al rischio di inondazioni, uragani e incendi.
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E in Italia? Già oggi la prima causa di gran parte del flusso migratorio verso il nostro Paese è costituita da fenomeni meteo-climatici. Nel dossier «I migranti ambientali. L'altra faccia della crisi climatica», presentato ieri da Legambiente, si delinea un quadro dei flussi migratori collegati direttamente o indirettamente alla crisi climatica: quasi il 38% delle nazionalità dichiarate dai migranti arrivati via mare nel nostro Paese, negli ultimi quattro anni, è riconducibile all'area del Sahel, che coincide con la fascia della desertificazione.
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In quell'area, l'agricoltura è fortemente dipendente dalle variazioni climatiche e l'esodo, ogni giorno di più, diventa una vera e propria lotta per la sopravvivenza. Se a queste persone si aggiungono i migranti arrivati da Paesi dove lo stress ambientale è causa o concausa della migrazione, come Costa d'Avorio, Guinea, Bangladesh e Pakistan, si arriva al 68%.
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In pratica, sette migranti su dieci. Ma non è tutto. Secondo diversi studi, l'innalzamento del livello dei mari potrebbe mettere in pericolo circa 150 milioni di persone: quelle che vivono in territori che finiranno sott' acqua entro il 2050. Parliamo di città costruite su un livello medio del mare molto basso, o quelle soggette a una subsidenza importante come Venezia.
Ma anche la laguna di Taranto, il golfo di Oristano, la parte meridionale del nord Adriatico, sono tutte zone particolarmente sensibili. E se domani i migranti climatici saremo noi?