Mattia Feltri per la Stampa
enzo tortora
Ieri Enzo Tortora avrebbe compiuto novant' anni ed è stata la seconda volta in cui mi sono imbattuto nelle immagini del suo arresto. La prima fu quel venerdì 17 giugno 1983.
La mia famiglia si radunò davanti al telegiornale, allora funzionava così. Ricordo soltanto la voce bassa e ringhiante di mio padre: «Che schifo, hanno chiamato le telecamere». Non ricordavo le mani di Tortora protese in avanti a esibire le manette. Quanti, prima e dopo di lui, hanno ottenuto di nascondere la vergogna con un giornale o una giacca. Tortora non volle.
tortora portobello
Avevano chiamato le telecamere, doveva essere uno spettacolo e Tortora ne fece uno memorabile, perché sapeva che era lo spettacolo dell' innocente portato in ceppi. Riguardatele le immagini, i giornalisti, i fotografi, i ragazzini eccitati, il popolo sorridente per il pubblico a casa, e un solo volto dignitoso. Pensate quante volte abbiamo gioito nell' anima e in gola per il potente in disgrazia, trascinato in basso così che noi ci sentissimo più in alto. Non abbiamo smesso più. Non abbiamo imparato nulla. Per i trentacinque anni successivi il sospetto è bastato per saziarci e inebriarci, e puntare il dito ogni volta nella stessa direzione, e noi sempre al riparo di quel dito accusatore e immacolato.
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Ma la giustizia è cosa di uomini, e inutilmente è stato detto che nessuna tirannia è più orribile di quella che si esercita in suo nome. E quando Tortora urlò ai giudici «io sono innocente e spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi», voleva dire, per sé e per tutti, che mille volte la giustizia siede sul banco degli imputati. Non lo sentirono i giudici, non lo sentì nessuno.
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