Lorenzo Cremonesi per corriere.it
Cadaveri di civili che galleggiano nel loro sangue misto ai liquami puzzolenti nel canale della fogna lungo il perimetro dell’aeroporto. I video diffusi tra gli afghani mostrano le immagini dalla strada di fronte arrossata, brandelli di corpi ovunque, bagagli sfondati, donne, uomini, bambini che si disperano.
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Appena dietro il filo spinato, ecco i soldati americani che cercano di salvare i loro, mentre ancora sulla pista alle loro spalle le silhouette lente e goffe degli aerei cargo tentano rischiosamente di continuare il ponte aereo. Sino a quando?
Gli attentatori suicidi hanno ottenuto il loro scopo ieri pomeriggio a Kabul: l’esodo dalla città è pregiudicato, irrimediabilmente, l’incubo si avvera. Di fatto, gli afghani non possono più partire. Gli ospedali locali segnalano almeno una settantina di morti e oltre 120 feriti (Qui gli aggiornamenti in tempo reale). In serata il Pentagono confermava il decesso di 12 marines e il ferimento di 3. S’impongono così terrorismo, dolore e soprattutto trionfa la strategia dell’uso brutale delle armi per stravolgere la situazione politica e sociale.
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Due giorni fa noi stessi abbiamo sentito i responsabili dell’intelligence Usa all’aeroporto di Kabul sostenere che erano «imminenti» attentati dell’Isis nella zona degli accessi per il terminal e persino contro gli aerei in decollo. «Per loro un massacro ad effetto, amplificato dai media mondiali, offre una tripla vittoria: colpisce gli infedeli occidentali, boicotta il tentativo talebano di imporre la normalizzazione sul Paese e minaccia quegli afghani che sono considerati traditori per il fatto di aver collaborato con gli americani e i loro alleati», spiegava uno degli ufficiali. E l’Isis ha infatti rivendicato l’attacco.
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Un attentatore, si legge sul canale Telegram dell’agenzia di stampa collegata all’organizzazione terroristica, Amaq, «è riuscito a raggiungere un gruppo di traduttori e collaboratori dell’esercito americano al Baran Camp vicino all’aeroporto di Kabul e ha fatto brillare la sua cintura esplosiva tra di loro, uccidendo circa 60 persone, compresi i combattenti talebani».
La dinamica dell’attentato svela una regia ben orchestrata. Un primo kamikaze si fa esplodere ad Abbey Gate, controllata dagli americani, ma di fronte alla quale sta in attesa larga parte degli afghani. L’effetto delle schegge tra migliaia di corpi ammassati è devastante. Qui si conta il numero più alto di vittime. Seguono spari a raffica che aggiungono panico e confusione. E appena dopo un’autobomba esplode nei pressi del vicino Baron hotel, che è una delle «zone rifugio» più frequentate, dove si radunano i cittadini americani e i loro collaboratori afghani senior prima di tentare la sorte e raggiungere il terminal. Nei giorni scorsi le pattuglie Usa avanzate avevano compiuto alcune sortite per scortarli in sicurezza alla zona dei decolli. Ora, però, molto lascia credere che, con l’avvicinarsi della data finale del ritiro il 31 agosto, gli attentati siano destinati a farsi più insidiosi.
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KABUL, DOPO L’ATTENTATO IL DOLORE DEGLI AFGHANI
Andrea Nicastro e Marta Serafini per corriere.it
«Era come il giorno del giudizio universale, c’erano feriti ovunque che correvano ricoperti di sangue». Mohammed è un ex interprete delle forze britanniche. Sta aspettando, come migliaia di altre persone vicino all’Abbey Gate, l’ultimo punto di accesso per accedere alla zona dell’aeroporto da cui partono i voli di evacuazione. La porta della salvezza. La porta dell’inferno.
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Ore 15.22. «C’è stato un attacco, un’esplosione, forse un attacco suicida». Amid scrive via WhatsApp, sta facendo da ponte per un conoscente che è passato dall’Abbey Gate da pochi minuti, pensa di aver appena visto un amico mettersi in cammino verso un futuro migliore. Poi la disperazione. «Oh no, sono morti tutti, Oh no, era con i figli e la moglie». Urla, grida. Sulla folla di chi tenta l’ultima possibilità per lasciare il Paese, in fuga dai talebani, la miseria e la guerra verso una vita migliore, piomba la polvere dei detriti mentre il sangue si appiccica ovunque.
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«Ci sono molti morti vicino a me e il canale è diventato color sangue». Una giornalista afghana incinta di 7 mesi con i suoi due bambini è all’aeroporto di Kabul. È in contatto con la ong italiana Cospe di Firenze. La folla è assiepata nel canale, un fossato che separa la strada dall’ingresso vero e proprio dell’aeroporto. È il «dirty river», di cui viene scritto in molti messaggi che rimbalzano dalla capitale afghana, sul perimetro esterno dell’aeroporto. «Hanno ucciso tre persone davanti ai miei occhi». Lei invece ce l’ha fatta a entrare nell’aeroporto e può confidare in un volo che la riporterà in Italia.
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Sono entrate dentro lo scalo anche le calciatrici di Herat, la squadra che vinceva i campionati di calcio femminile, e le cicliste della squadra nazionale. Ora aspettano al sicuro di venire in Italia. «Hanno cibo e acqua in attesa di un volo», dicono le ong che si sono occupate del loro caso, anche se per ora non ci sono notizie certe sul decollo. Intanto aspetta un altro gruppo di 30 persone, tra cui una decina di bambini, che era finalmente riuscito ad entrare all’aeroporto poche ore prima dell’attentato all’Abbey Gate. «La loro posizione è stata comunicata in modo costante ai paracadutisti del battaglione Tuscania, che da dentro l’aeroporto gestivano le operazioni di evacuazione in coordinamento con la Farnesina», spiegano dal Cospe.
Ma dentro l’aeroporto intanto scoppia il caos. La situazione cambia di minuto in minuto. C’è chi tenta di ripararsi in qualche baracca. «Siamo qui, aiuto mandateci qualcuno ad aiutarci», è l’Sos di chi è appena entrato ma non riesce ad arrivare alla zona di evacuazione. «Non riusciremo mai a partire» è il grido ora. I militari si rinchiudono nei bunker, i voli sospesi.
attentato suicida all aeroporto di kabul
«Ho visto le carriole cariche di corpi rotti arrivare dall’aeroporto. Non c’è più speranza, non partirò e non potrò tornare a casa. Mi uccideranno, non posso nascondermi per sempre». Yusufkhel è entrato nella lista americana da tre giorni. Così almeno crede dopo aver cercato freneticamente di rintracciare i colonnelli, i soldati per cui ha lavorato per anni.
«Gli americani mi chiamavano Shah perché non sapevano pronunciare il mio nome Yusufkhel. Ci ridevano sopra e io con loro, ma credevo fossero amici. Invece mi hanno tutti tradito, abbandonato». Faceva il «facilitatore», l’intermediario, per le basi avanzate di Parwan e Ghazni. Ha trovato i terreni, contrattato gli affitti, discusso con gli anziani. E siccome i suoi contatti erano soprattutto locali, dal 2016 non ha avuto più rapporti. Nel frattempo però gli era stato appiccicato addosso il marchio del collaborazionista e della spia. Ha subito tre attentati. In uno ha perso l’uso del braccio. «Sono pashtun, non posso restare nella mia provincia o andare altrove qui in Afghanistan». Da due giorni cercava di superare il cordone talebano attorno all’aeroporto, senza riuscirci.
Anche vicino all’Hotel Baron, un fortino dove fino a pochi giorni fa stavano rinchiusi gli expat e dove ancora oggi dormono i contractor di tutte le agenzie, regna il caos. Davanti all’ingresso, un portellone di metallo spesso e ai muri di cemento armato, la seconda esplosione. Dentro le guardie armate fino ai denti. Qui davanti da giorni si accalcano centinaia di persone, con la speranza di unirsi ai collaboratori degli stranieri messi nelle liste di evacuazione. Ora ci sono «corpi, carne e sangue», racconta all’Afp Milad, che si trovava sulla scena della prima esplosione.
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«Quando la gente ha sentito l’esplosione c’è stato il panico totale. I talebani hanno poi iniziato a sparare in aria per disperdere la folla al cancello», ha detto un secondo testimone. «Ho visto un uomo correre con un bambino ferito tra le mani», racconta un terzo testimone.La calca e la furia non lasciano scampo. Nella confusione cadono per terra i documenti che si sperava avrebbero aiutato a salire su un volo. «Non vorrò mai più andare all’aeroporto. Morte all’America, alla loro evacuazione e ai visti», dice Ahmed alla Reuters.
Passa qualche ora e le testimonianze continuano ad arrivare. In pochi chilometri quadrati, si concentrano migliaia di vite. Quasi nessuno era lì per caso. Quasi tutti volevano partire, per mettersi in salvo. «Abbiamo portato i feriti sulle barelle mentre i nostri vestiti si inzuppavano di sangue».
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«Non ci sono state «vittime» all’hotel The Baron di Kabul che si trova nella zona della capitale afghana in cui è avvenuta una delle esplosioni». Sulla timeline i post scorrono, i messaggi e le immagini terrificanti pure. E tra i messaggi arriva anche il suo. «In qualità di proprietario dell’albergo The Baron di Kabul posso dire che non ci sono vittime o danni all’interno della struttura — si legge sull’account di Mumtaz Muslim — L’esplosione è avvenuta all’esterno dell’albergo». Un paradosso e un’ulteriore follia nelle ore più drammatiche della capitale. Quasi un tentativo di prendere le distanze dalla carneficina e dalla guerra, come se il passato fatto di cemento e barriere protettive intorno all’aeroporto fosse ancora tutto lì. Come se bastasse a proteggere dalle bombe. Poi la conclusione del messaggio. Con il dolore per «la perdita di vite innocenti». Ma a Kabul non solo non c’è più innocenza. Anche l’ultima speranza è morta tra l’Abbey Gate, il Dirty River e il Baron Hotel.
talebani 2 afgani in fuga da kabul 2 persone in fila per scappare da kabul