Guendalina Galdi per il “Corriere della Sera” - Estratti
giuseppe giannini totti
Chi è Giuseppe Giannini ora? «Un aspirante intenditore di calcio». Così si autodefinisce oggi il «Principe» del calcio italiano degli anni ’80 e ’90, romano e romanista con il numero 10 sulle spalle, elegante in campo e genuino fuori. Un «Principe» che con la Nazionale avrebbe potuto ottenere di più e che, una volta chiuso con il calcio giocato, ha voluto provare ruoli ed esperienze diverse. Come chiamare Giannini adesso? Direttore? Mister? «Facciamo Beppe e basta. Sono “direttore” sì, ma è una parola che non mi fa proprio impazzire...».
Si sente ancora «Principe»?
«A volte questo soprannome ha condizionato chi mi giudicava, ma se si pensa ai miei 22 anni di carriera è stato positivo. Non ce ne erano altri in giro. Mi piaceva. All’epoca davanti a me c’era Falcao che era “Il Divino”, io essendo arrivato dopo sono diventato “Principe”. Scelta azzeccata. Certo a guardarmi oggi...».
Come si vede?
GIUSEPPE GIANNINI TOTTI
«Faccio fatica a rivedere vecchie immagini. Sono cambiato tantissimo e mi “rode” adesso che sono senza capelli. Mi dà un po’ fastidio sinceramente, quindi evito di guardarmi. La gente neanche mi riconosce per strada».
Quanto le manca il calcio?
«Ormai ho smesso da talmente tanti anni che non ho più quel desiderio di tornare dove ero. Lo penso da qualche anno. Io se tronco qualcosa non torno indietro».
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Lei è stato un giovane che ce l’ha fatta. Poi la carriera con la maglia numero 10, la più difficile da assegnare...
«Alla Roma l’hanno indossata da Di Bartolomei a Totti, oltre me. Giocatori che hanno lasciato qualcosa al calcio italiano. Ancora la “10” non si rivede in campo ma ritornerà perché ha un fascino senza paragoni. È un peccato che in questo momento non ci sia».
Cosa le ha tolto il calcio?
«Non rifletto su quanto avrei potuto ottenere in più. Se fai così non vivi. O vivi male. In quel momento io ero quello, la Roma era quella, ho dato ciò che potevo dare».
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Da giocatore avrebbe ceduto a un’offerta dall’Arabia Saudita?
«Ho sempre detto che avrei voluto chiudere la carriera a Roma ma non è potuto accadere per tanti motivi. Allora ho voluto iniziare a conoscere altre realtà e culture. Se avessi ricevuto una richiesta così l’avrei presa in considerazione come mi capitò con il Marsiglia, il Siviglia, con la Fiorentina l'ultimo anno ma che non accettai. Ora guardando le cifre e le età in cui Ronaldo e altri si sono spostati...».
Un suo «grande rifiuto»?
«Io e Viola rifiutavamo qualsiasi offerta. In Nazionale ricevevo sempre i complimenti di Boniperti. Si avvicinava (era capo delegazione allora), faceva qualche battuta, diceva “Ti voglio alla Juve”. Per me finiva lì. Alla fine andai allo Sturm Graz pur di non restare in Italia. La situazione è cambiata quando è arrivato Sensi. Poi sono tornato al Napoli, ma solo perché mi chiamò Mazzone».
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È stato Ct del Libano per due anni: rifarebbe quell’esperienza?
«Sì e la consiglierei. Sono stato bene a livello lavorativo, ne è valsa la pena. È stato un peccato non aver partecipato alla Coppa d’Asia per un gol. Mi avrebbero fatto una statua in piazza a Beirut se ci fossimo qualificati... è una città splendida anche se quando c’ero io era pericolosa, c’era un attentato dietro l’altro. Qualche volta ho temuto».
Ci racconti.
«A volte quando passeggiavamo sul lungomare avevamo il timore che qualche macchina fosse piena di ordigni. Era normale pensarci visto quello che accadeva. Ma feci quella scelta in maniera consapevole. Volevo far vedere le mie competenze, farmi conoscere per poi magari andare in nazionali più importanti».
La delusione più grande?
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«La semifinale del Mondiale del ‘90 a Napoli non è paragonabile ad altro per importanza».
Ha avuto poca fortuna con la maglia azzurra?
«Se penso a quella sera...basta una svista per segnare una carriera. Un conto è se arrivi in finale, un altro conto se perdi prima...».
E con la Roma?
«I “se”, i “ma”... quanto contano nel calcio? Tornare indietro e pensare a cosa avrei potuto vincere non mi piace.Ho dato quello che potevo dare, ho ricevuto quello che potevo ricevere».
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Aspettava una chiamata?
«Il primo pensiero, una volta smesso col calcio, è stato quello di tornare nell’ambiente in cui ho sempre vissuto per 15 anni. Da casa mia sarei arrivato sempre a Trigoria, anche bendato. Sono dodici minuti. Conosco ogni curva e ogni buca del tragitto. Il desiderio era di iniziare un percorso da dirigente o allenatore nella Roma. Non è stato possibile e ho guardato avanti. Ora sono contento qui al Monterosi».
L’anno prossimo compirà 60 anni, con chi le mancherà festeggiare?
«Mi mancheranno gli auguri dei miei genitori. E quelli di altre persone con cui ho condiviso esperienze, penso a Vialli e a Mihajlovic che sono scomparsi da poco. E poi di qualche capo della tifoseria giallorossa che non c’è più e con cui ho condiviso trasferte, momenti belli e meno belli».
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