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    1. “HO VENT'ANNI E MI ODIO. FACCIO SCHIFO. LA PANCIA SPORGENTE. FINIRÒ IN UNA CASA DI CURA ENTRO I VENTINOVE ANNI. NON CONCLUDERÒ UN TUBO EPPURE, SE MI INCONTRASTE A UNA FESTA NON LO DIRESTE MAI. SONO QUELLA CHE BALLA E CHE RIDE PIU' SGUAIATAMENTE”. 2. ESCE “NON SONO QUEL TIPO DI RAGAZZA” DI LENA DUNHAM, INTERPRETE E SCENEGGIATRICE DELLA SERIE TV “GIRLS”, CHE SI CANDIDA A DIVENTARE IL MANIFESTO DELLE VENTENNI DI OGGI 3. NELL’INTRODUZIONE SUBITO UNA DICHIARAZIONE DI GUERRA ESISTENZIALE. “NO,NON SONO UNA SESSUOLOGA, UNA PSICOLOGA O UNA DIETOLOGA. NON SONO UNA MADRE DI TRE FIGLI NÉ LA PROPRIETARIA DI UNA FLORIDA CATENA DI NEGOZI DI COLLANT. SONO UNA RAGAZZA MOSSA DALLA BRAMA DI ‘AVERE TUTTO’, E LE PAGINE DEL MIO LIBRO SONO DISPACCI PIENI DI SPERANZA"


     
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    Il testo qui pubblicato è l’introduzione di Lena Dunham al suo “Non sono quel tipo di ragazza” (Sperling & Kupfer, 288 pagine, 15,90 euro).

     

    Lena Dunham

     

    Ho vent’anni e mi odio. I capelli, la faccia, la pancia sporgente. La mia vocina tremolante e le poesie sdolcinate. Il fatto che i miei genitori, per rivolgersi a me, usino un tono leggermente più alto di quello che usano con mia sorella, come se fossi un funzionario pubblico che ha dato di matto e se, messa sotto pressione, potessi far esplodere gli ostaggi che tengo legati nello scantinato.

    Lena Dunham Lena Dunham

     

    Dissimulo tanta ostilità attraverso una sorta di autoaccettazione aggressiva. Mi tingo i capelli di un punto di giallo catarifrangente, tagliandoli corti in alto e ai lati e lasciandoli lunghi dietro, ispirata più dalle foto di ragazze madri degli anni Ottanta che da qualsiasi moda del momento. Mi vesto di spandex di colori fluo che mi fascia in tutti i punti meno opportuni. Io e mia madre abbiamo avuto una lite furibonda, una volta, quando per andare in Vaticano ho scelto di indossare leggings rosa e una maglietta che lasciava l’ombelico scoperto, con le banane stampate sopra, facendo strabuzzare gli occhi ai devoti turisti che poi distoglievano subito lo sguardo.

     

    Vivo in un dormitorio che, fino a poco tempo fa, era un ospizio per cittadini indigenti e non voglio pensare a dove possano essere finiti adesso. La mia compagna di stanza si è trasferita a New York per esplorare la cucina a chilometro zero e l’universo lesbo, così sono sola soletta, in un pianoterra con un’unica camera da letto, cosa che apprezzavo fino a quando, una notte, una giocatrice di rugby ha scardinato la porta a zanzariera e ha fatto irruzione nel dormitorio per aggredire la sua fidanzata fedifraga.

     

    lena dunham e miuccia prada lena dunham e miuccia prada

     Ho comprato un videoregistratore e un paio di ferri da maglia e ho passato quasi tutte le sere sul divano, a fare una sciarpa per un ragazzo che mi piace e che ha avuto una crisi maniacodepressiva, ed è sparito dalla circolazione. Ho girato due cortometraggi, che mio padre giudica «interessanti ma incoerenti», e sono talmente paralizzata come scrittrice che ho iniziato a tradurre poesie da lingue che non conosco, una specie di esercizio surrealista che dovrebbe ispirarmi e al tempo stesso inibire i pensieri perversi e ossessivi che mi affiorano alla mente senza che io possa controllarli. Faccio schifo. Finirò in una casa di cura entro i ventinove anni. Non concluderò mai un tubo.

     

    lena dunham lena dunham

    Eppure, se mi incontraste a una festa non lo direste mai. In mezzo alla gente sono immancabilmente gioiosa, tutta in tiro con abiti da sera presi nei negozi dell’usato e le unghie finte, in perenne lotta contro il sonno indotto dai 350 milligrammi di farmaco che prendo tutte le sere. Sono quella che balla di più, che ride più sguaiatamente delle proprie battute e che nei suoi discorsi non manca mai di tirare in ballo la propria vagina, come se parlasse di un’automobile o di una cassettiera. L’anno scorso ho avuto la mononucleosi, e non è mai andata via del tutto. Ogni tanto una ghiandola mi si gonfia tipo pallina da golf sporgendomi dal collo come uno dei bulloni che tengono insieme l’orrenda creatura del dottor Frankenstein.

     

    Ho delle amiche: una specie di gruppo di ragazze le cui passioni (fare dolci, essiccare fiori, organizzare le attività della comunità) non mi entusiasmano granché. E la cosa mi fa sentire in colpa, come se l’incapacità di essere a mio agio quando sono con loro fosse la prova, oltre ogni ragionevole dubbio, che non sono una brava persona. Rido, concordo, trovo delle scuse per tornare a casa prima. Ho la fastidiosa sensazione che le mie vere amiche mi stiano aspettando, dopo il college: donne fuori dal comune con ambizioni grandi quanto le loro passate trasgressioni, con i capelli cotonati sulla testa, eccentrici e spettacolari come i cespugli dei giardini di Versailles, e che non commenterebbero mai con un «hai già detto fin troppo» se stai raccontando un sogno in cui fai sesso con tuo padre.

     

    Ma mi sentivo così anche al liceo, certa che la mia gente venisse da un altro posto e andasse in un altro ancora e che vedendomi mi avrebbe riconosciuta. A loro sarei piaciuta quanto basta da rendere irrilevante il fatto che non piacevo a me stessa. Avrebbero visto i miei lati positivi, e a quel punto li avrei visti anch’io.

     

    LENA DUNHAM COL FIDANZATO LENA DUNHAM COL FIDANZATO

    Il sabato io e le mie amiche ci infiliamo nella vecchia Volvo di una di noi e andiamo in un negozio dell’usato a comprare cianfrusaglie che puzzano di vite altrui e vestiti che crediamo valorizzino la nostra. Vogliamo sembrare tutte personaggi delle sit-com delle nostre giovinezze, le adolescenti che ammiravamo quando eravamo ancora bambine. Non trovo mai dei pantaloni che mi stiano, a meno che io non vada nel reparto prémaman, quindi compro più che altro vestiti a sacco e maglioni alla Bill Cosby.

     

    A volte porto a casa un bel bottino: un tailleur pantalone color pesca con minuscole macchie di caffè, leggings con ai lati catene disegnate tipo trompe-l’oeil, un paio di stivali fatti su misura per qualcuno che aveva una gamba più lunga dell’altra. Ma ci sono anche giorni in cui è piuttosto scarso. Nessuna traccia del solito trionfo di négligé strappati né delle scarpette a fantasia, imitazioni delle Keds. Nei giorni così vago nel reparto libri, dove la gente scarica guide per divorziare meglio e manuali di bricolage, e certe volte anche scrapbooks personali e album di foto di famiglia.

     

    Scandaglio lo scaffale impolverato, che sembra la biblioteca di una famiglia infelice e possibilmente anche analfabeta. Ignoro le dritte su come fare soldi facili, indugio un attimo sull’autobiografia di Miss Piggy, contemplo un libro che si chiama Sorelle. Il dono dell’amore. Ma arrivata a un tascabile sbiadito con gli angoli così ingialliti che sono diventati quasi verdi, mi fermo. Having It All di Helen Gurley Brown, che posa in copertina, appoggiata alla sua ordinata scrivania, indossando un abito color prugna con le spalline, che il caso vuole abbia anch’io, con accessori di perle e il sorriso di chi la sa lunga.

     

    GOLDEN GLOBES LENA DUNHAM GOLDEN GLOBES LENA DUNHAM

    Ho speso i sessantacinque centesimi richiesti per portarmi il libro a casa. In macchina l’ho fatto vedere alle mie amiche come fosse un buffo oggetto d’arredamento, qualcosa da aggiungere al mio scaffale di trofei kitsch e foto di bambini sconosciuti in posa per le pubblicità del supermercato. È il nostro hobby: appropriarci di manufatti densi di significato ed esporli, quasi a volerne fare un monito di ciò che non saremo mai. Ma io so che divorerò questo libro, e una volta a casa vado dritta a letto, rabbrividendo sotto la mia trapunta patchwork, mentre una delle solite tempeste di neve dell’Ohio turbina nel parcheggio fuori dalla finestra.

     

    Il libro è del 1982 e nel frontespizio interno c’è una dedica, scritta con la penna a sfera: «A Betty! Con amore, Margaret, la tua amica di Optifast». Mi commuove l’idea che una donna lo abbia passato a un’altra conosciuta in un gruppo di supporto per perdere peso, l’Optifast appunto, chissà quanto tempo prima. Nella mia mente ho continuato il messaggio: Betty, possiamo farcela. Ce la stiamo facendo. Lascia che questo libro ti porti alle stelle e oltre.

     

    Per una settimana, tutti i giorni, finite le lezioni, corro a casa, avida degli insegnamenti di Helen. Sono elettrizzata dal modo in cui, in Having It All, la Gurley Brown condivida le sue molteplici umiliazioni e gli occasionali trionfi e spieghi, con l’esattezza di una Guida per Idioti, come si possa essere benedetti da «amore, successo, sesso e denaro anche se si parte da zero».

     

    GIRLS LA SERIE DI HBO CREATA DA LENA DUNHAM GIRLS LA SERIE DI HBO CREATA DA LENA DUNHAM

    Va anche detto che la maggior parte dei consigli che dà sono delle assolute idiozie. Incoraggia le lettrici a mangiare meno di mille calorie al giorno («Va bene una dieta drastica, passi anche il digiuno... Il senso di sazietà è fuori discussione. Dovete sentirvi leggermente a disagio e affamate mentre perdete peso, altrimenti con ogni probabilità non state perdendo un bel niente»), se potete evitate di avere figli e siate sempre pronte a fare un pompino («Più sesso fate, più riuscite a reggerne»). In materia Helen mal tollera il libero arbitrio: «Stanchezza, preoccupazioni, dolori mestruali... non esistono valide scuse per non fare sesso a meno che non siate così arrabbiate con l’uomo che è nel vostro letto che gli occhi vi stanno per schizzare fuori dalle orbite e a forza di digrignare i denti state rischiando di scheggiarveli».

     

    Altri consigli sono un po’ più ragionevoli. «Se andate in aeroporto partite sempre un quarto d’ora prima di quando potreste. Vi eviterà di consumare i pistoni della vostra auto», oppure: «Se avete seri problemi personali, be’, penso che dovreste rivolgervi a uno psicologo. Per come la vedo io, non farsi aiutare a curare la testa e il cuore feriti è come aggirarsi per le strade con la gola squartata e il sangue che ne sgorga a fiotti...». Ma tanta schietta saggezza perde un po’ del suo vigore quando è costretta a convivere con perle del tipo: «Trovo che evitare del tutto gli uomini sposati, fintanto che si è single, sia come rifiutarsi di andare al pronto soccorso di un ospedale di Tijuana mentre muori dissanguata perché preferisci un immacolato ospedale americano che si trova a un’irragionevole distanza oltre il confine».

     

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    Having It All è diviso in sezioni, ogni sezione è un viaggio in uno dei solitamente sacrosanti aspetti della vita femminile come la dieta, il sesso o le complicazioni del matrimonio. Nonostante le sue deliranti teorie, che non collimano affatto con la mia educazione femminista, apprezzo il modo in cui Helen condivide con i lettori la sua imbarazzante lotta contro l’acne nel tentativo di dirci: Datemi retta, la felicità e la soddisfazione possono capitare a tutte. Nel farlo mostra un pathos tutto suo (non riesco a togliermi dalla testa un passaggio su un’abbuffata di baklava), ma magari la sto sottovalutando. Forse è un vero e proprio dono, il suo.

     

    Quando ho trovato il libro, non avevo ancora capito la posizione di Helen Gurley Brown all’interno del genere letterario di riferimento; non immaginavo che quello di cui, e contro cui, scriveva erano le donne che mi avrebbero fatto da guida, donne come Gloria Steinem e Nora Ephron. Non sapevo che fosse stata il tormento sia del movimento femminista sia della buoncostume, né che fosse ancora viva e, a quasi novant’anni, ancora prodiga dei suoi singolari consigli da quattro soldi, di nessuna utilità per chi sta davvero male. Sapevo solo che quello che faceva era il ritratto di una vita resa più ricca dall’essere stata un tempo, come lei si definiva, una niente di che: bruttina, anonima, informe. Era convinta che, alla fine, le niente di che fossero le donne destinate a trionfare perché avevano vissuto l’esperienza di essere guardate dall’alto in basso e poco amate. La sua è una prospettiva egoistica, ma è proprio ciò di cui ho bisogno. Forse, come raccomanda Helen, donne forti, sicure di sé e sì, anche sexy, non ci si nasce ma ci si diventa. Forse.

     

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    Non c’è niente di più coraggioso, per me, di una persona che dichiara che la sua storia merita di essere raccontata, soprattutto se si tratta di una donna. Malgrado la fatica e la strada fatte, continuano a esserci un’infinità di forze che cospirano per dire a noi donne che le nostre preoccupazioni sono sciocche, che le nostre opinioni non sono richieste, che non abbiamo la gravitas necessaria a rendere significative le nostre storie. Che gli scritti personali di una donna non sono altro che un esercizio di vanità e che dovremmo apprezzare il nuovo mondo che ci è offerto e starcene buone e zitte.

     

    Ma io voglio raccontarle le mie storie e, anzi, devo farlo per preservare la mia sanità mentale. Voglio raccontare di come ho preso coscienza del mio corpo di donna adulta e di quanto ne fossi disgustata e terrorizzata. Di quella volta che, durante uno stage, mi hanno palpato il didietro, di quando ho dovuto dare prova di me in una riunione piena di cinquantenni, e della serata di gala in cui ho sfoggiato il naso più rosso e pieno di croste che si sia mai visto. Di come abbia acconsentito a farmi trattare dagli uomini in modi che sapevo essere sbagliati. Voglio raccontare di mia madre, di mia nonna, del primo ragazzo che ho amato, che poi si è rivelato un po’ gay, e della prima ragazza a cui ho voluto bene, che è diventata una nemica.

     

    E se ciò che ho imparato potrà esservi di una qualche utilità, o risparmiarvi di fare sesso quando avete la sensazione che sarebbe meglio tenervi le scarpe ai piedi, nel caso foste assalite dall’irrefrenabile desiderio di scappare proprio mentre lo state facendo, allora sarà valsa la pena commettere ogni mio singolo errore. Già prevedo la vergogna futura che proverò al pensiero di non aver avuto niente da offrirvi, ma anche il vanto per avervi impedito di provare un costosissimo succo disintossicante o di addossarvi la colpa se il tipo con cui state uscendo di colpo si tira indietro, intimidito dalla chiarezza della vostra missione personale qui sul pianeta terra. No, non sono una sessuologa, una psicologa o una dietologa. Non sono una madre di tre figli né la proprietaria di una florida catena di negozi di collant. Sono una ragazza mossa dalla brama di «avere tutto», e le pagine del mio libro sono dispacci pieni di speranza dalla trincea di questa battaglia. (Traduzione di Tiziana Lo Porto) Not That Kind of Girl © 2-014 Sperling & Kupfer Editori S. p. A. 

     

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