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    ESSERE CLAUDIO CALIGARI IN UN PAESE CHIAMATO ITALIA - VALERIO MASTANDREA RACCONTA LA VITA ACCIDENTATA E I FILM SUPERBI DI UN GRANDE REGISTA CHE VIENE MONUMENTALIZZATO (CANDIDATO AGLI OSCAR) SOLO DA MORTO: “QUA IN ITALIA NON SI FA PIÙ IL CINEMA…”


     
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    Marco Giusti per ''Rolling Stone''

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    “Claudio Caligari è un po’ lo Zeman del cinema italiano. Questa l’ho detta quando abbiamo presentato a Venezia L’odore della notte nel 1998”. Tra qualche giorno Valerio Mastandrea, dopo solo tre giorni di vacanze, porterà a Venezia, fuori concorso, Non essere cattivo, terzo e ultimo film di Claudio Caligari, regista di un cult movie come Amore tossico, morto lo scorso maggio a 67 anni, a riprese e seconda stesura di montaggio ultimate.

     

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    Per Valerio, diciamo che è la fine di un lungo viaggio che ha intrapreso con Caligari prima come attore con L’odore della notte e che è proseguito poi negli anni più come amico che come un vero e proprio produttore. Ma è certo grazie a lui, che ha lottato in questi ultimi anni per riuscire a trovare i fondi necessari e che ha seguito ogni fase della lavorazione del film, che Caligari è riuscito a terminare, già malatissimo, la terza parte della sua trilogia sulla Ostia violenta e drogata iniziata proprio con Amore tossico.

     

    Quando hai conosciuto Claudio Caligari?

    Nel ’98 con L’odore della notte. Avevo fatto un provino per un altro ruolo. Poi mi dette quello da protagonista. Prima di accettare feci passare due ore. Ma lo sapevo da subito che avrei accettato.

     

    Avevi già visto Amore tossico?

    Sì, ma non al cinema, in televisione.

     

    A quell’epoca lo avevi già visto come un film di culto?

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    Io lavoravo da cinque anni nel cinema e diciamo che ero abbastanza fresco. Il culto del film da parte mia non era professionale, ma da spettatore.

     

    Il culto vero del film nacque un bel po’ dopo la sua uscita…

    Tutti i culti nascono un po’ dopo, non mi sembra di ricordare qualcosa che diventi di culto immediatamente. Oggi, anzi, più è mainstream e più sta sul cazzo oggi la robba.

     

    Magari per Pulp Fiction no… lì il culto fu immediato.

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    O magari non c’era ’sta dinamica per cui se una cosa è mainstream la devi odiare per forza. Ora è così, guarda twitter… Certo, su letteratura e musica non si scherza. Siamo tutti molto intolleranti.

     

    Ma i vecchi tossici romani anni ’70 li avevi conosciuti?

    Io, sono nato nel ’72, però dove sono cresciuto io, anche se noi eravamo un gruppetto abbastanza immune, c’era gente che si faceva d’eroina. Diciamo che in città e in tutta la zona di Viale Marconi, fino agli anni ’90 potevi tranquillamente vederle ’ste scene. Però nel caso di Amore tossico, anche solo veder riprese quelle scene in maniera autentica fu dirompente per noi.

     

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    Sia Amore tossico che L’odore della notte, malgrado questa autenticità legata alla droga e alla violenza, avevano poi delle battute, delle situazione, che li avvicinavano più al cinema di Tomas Milian e di genere che non al cinema autoriale del tempo.

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    Questo sarei stato curioso se lo avessi chiesto a Claudio, chissà come ti avrebbe risposto… Ho capito cosa dici, però lui era un uomo di cinema vero, cioè era uno che ogni inquadratura era una citazione, e poi ti domandava: “Ma tu l’hai visto questo film?” Si riferiva di solito a film come Rocco e i suoi fratelli, film che quelli della mia generazione non avevano certo mai visto al cinema. “L’hai visto in televisione?”, ci faceva. “Allora non l’hai visto…”.

     

    Claudio era uno che per rispetto del cinema andava a vedere i film di certi registi, come Martin Scorsese, in sala il primo giorno. E lo faceva anche con i film di Paolo Sorrentino. Oggi in controtendenza, con la chiusura delle sale, se si proiettassero al cinema i vecchi film, penso a Il terzo uomo di Carol Reed, ai film di Ernest Lubitsch, che sono cose pazzesche, riconosceresti davvero la straordinarietà del cinema.

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    Che ti è piaciuto subito di Caligari?

    Non era uno che faceva giri di parole, una di quelle persone che ti affascinano e ti terrorizzano allo stesso tempo, che se ti devono dire che sei uno stronzo te lo dicono. Quando ti trovi davanti una persona così schietta, gli vuoi subito bene e lo temi pure per certe cose che può dire. Però la cosa che più mi ricordo di L’odore della notte era il grande senso del cinema che si respirava.

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    Quindi era più legato al cinema classico che non al cinema di serie B, ai generi…

    Il suo era cinema classico, e ce lo diceva ogni giorno con le sue inquadrature. Ma era anche di genere, contro il naturalismo e la verosomiglianza.

     

    Perché non riusciva a portare avanti i suoi progetti. Stava sul cazzo ai produttori?

    Non è vero che stava sul cazzo. Semplicemente il cinema di Claudio non era, non è un cinema definibile, è solo cinema e siccome qua in Italia non si fa più il cinema… Penso a un progetto del 2004 fallito proprio all’ultimo momento, Anni rapaci, che raccontava l’avvento della criminalità meridionale al nord, una storia che partiva al 1973 e arrivava fino al 1990. Un progetto che stava avanti di vent’anni anche da un punto di vista giornalistico.

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    Un filmone, quindi…

    Era una specie di Quei bravi ragazzi ambientato però nell’hinterland milanese. Il progetto andò avanti fino a quando non ci fu una brusca interruzione. A quel tempo capitava spesso. Tanti produttori in questo modo ci guadagnavano.

     

    Lui ne aveva provati a fare tanti di film che non vennero realizzati?

    Ne aveva scritti almeno quattro o cinque. Noi adesso cercheremo di riprenderli e magari di rimetterli in piedi, perché sono ancora molto fattibili da un punto di vista cinematografico, produttivo forse un po’ meno…

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    Erano tutte storie di violenza?

    Trattavano tutti di epoche storiche che noi siamo abituati a vedere raccontate da un certo tipo di cinema. Tratti gli anni ’70. Di cosa parli? Di anni di piombo… Col cazzo! Quello che aveva scritto Claudio sugli anni ’70 era una storia da dentro il carcere. La sua idea era raccontare l’Italia attraverso la detenzione di quattro personaggi particolari. Anni rapaci raccontava quello. Come nasceva la criminalità che da un rapimento, da una revolverata passava agli appalti. Caligari ha avuto sempre questa pecularietà. Usare il cinema non dove pensava che il cinema potesse arrivare. E quindi capovolgendo anche le aspettative di mercato e degli spettatori. Anche gli anni di L’odore della notte erano gli anni dei neri e rossi a Roma, di gente che veniva ammazzata per niente…

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    Quindi c’era sempre un filo di racconto storico sulla realtà italiana…

    Essendo un intellettuale, uno degli ultimi, era uno che si andava a sporcare veramente le mani prima di raccontare qualcosa, aveva una visione molto critica sui periodi storici che hanno portato poi a quello che siamo oggi. Lui ti raccontava il presente analizzando il passato in una maniera poco omologata.

     

    Un modo di fare controinformazione col cinema, insomma.

    Però se la controinformazione la fai a casa tua te la dai in faccia, se riesci a portarla negli ambienti in cui non sono abituati a sentire raccontare queste cose… La sua originalità era quella di uno che ti dà un cazzotto in bocca con una cosa che tu sei sempre stato abituato a pensare in una certa maniera e invece lui ti dimostra che che la storia è diversa. Tutto questo manca nel nostro cinema.

    il tweet di valerio mastandrea che omaggia claudio caligari il tweet di valerio mastandrea che omaggia claudio caligari

     

    Ma non sarà stata questa originalità e questa serietà a farne un escluso dal mondo del cinema italiano?

    Per me la parola escluso non è tanto corretta, perché Claudio si è anche tanto autoescluso. Uno che ha fatto delle scelte talmente radicali, forti, e non se ne è mai lamentato. Rivendicava solo il diritto a fare il suo cinema. Ci sono registi che hanno fatto 40 film, ma che sono più esclusi di lui da un certo tipo di concezione di questo mestiere. Per me che l’ho visto lavorare, ci ho lavorato, l’ho conosciuto, penso che uno più integrato nella vera essenza del cinema io non l’ho mai conosciuto. Che poi abbia fatto 3 film in 35 anni…

    MASTANDREA MARINELLI BORGHI MASTANDREA MARINELLI BORGHI

     

    Ma come ti spieghi questa difficoltà a chiudere i film?

    Secondo me era un problema sia di contenuti che di epoca. Noi dal 93-94, abbiamo vissuto 25 anni di omologazione totale, anche io ci ho fatto parte di questa roba, solo adesso ci stiamo a riprendere un pochetto. Io l’ho presa tutta e nonostante questo, qualche scelta sono riuscita a farla. La sua carriera, invece, ha coinciso, con la muratura della casella di un certo tipo di cinema che non si poteva fare più in questa paese.

     

    L’ultimo film, Non essere cattivo, come siete riusciti a metterlo in piedi?

    ALESSANDRO BORGHI ALESSANDRO BORGHI

    Io ancora non lo so. So solo che a maggio del 2014 Claudio se ne stava andando, è stato ripreso proprio per miracolo. E parallelamente a questo salvataggio mi è arrivata una telefonata da Rai Cinema, dove ero andato due anni prima proponendo la partecipazione alla raccolta fondi per il film, e mi è stato chiesto: “Ma questo film di Caligari lo fate o no?”. Io stavo in ospedale da lui e ho risposto: “Certo che lo famo”. Ho attaccato, gliel’ho detto lì per lì a Claudio, e a lui gli si sono riaperti gli occhi. E da lì abbiamo cominciato a costruire il film mattone dopo mattone…

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    La storia del film? Ancora Ostia, violenze…

    Per Claudio questo era il film che doveva chiudere la sua trilogia, nel senso che era Amore tossico quinidici anni dopo con la mutazione del territorio, con l’avvento del Porto, con la fine, come la chiamava lui, dell’epoca pasoliniana. Tutto ambientato tra il 1993 e il 1995…

     

    E da lì siamo partiti con una ricerca che Claudio aveva in parte già fatto con l’aiuto di Emmanuel Bevilacqua, il “Rozzo” de L’odore della notte, che è di Ostia. Il film Caligari lo ha scritto con due sceneggiatori, però Emmanuel è stato quello che lo ha trainato dentro l’Ostia più difficile da raccontare.

     

    Aveva fatto un lavoro di preparazione grandissimo, il lavoro di scrittura è stato altrettanto grande, adesso toccava a noi mettere in piedi il film. Fino al momento della lettera che ho scritto a Martin Scorsese. Io l’ho fatto perché ho visto proprio l’orologio, che segnava le ore in maniera molto veloce relativamente alle condizioni di Claudio. Allora di getto ho scritto questa lettera, ho chiamato Claudio, gliel’ho detto, gliel’ho letta e gli ho chiesto di poterla pubblicare.

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     “Perché l’hai scritta?”, mi fa. “Perché bisogna fare qualcosa in fretta”, ho risposto. Nella lettera non si faceva mai riferimenti alla sua malattia, non si faceva nessun pietismo. Inoltre sapevo che per lui toccare Scorsese era come toccare il sangue del suo sangue. Lui l’ha letta, ci ha pensato due giorni, poi mi ha chiamato e mi ha detto: “Guarda, mi sembra una lettera talmente sincera che si può mandare”.

     

    Io ho chiamato Antonio Monda, che l’ha tradotta e gliel’ha data in mano proprio a Martin Scorsese, poi ho chiamato Fabio Ferzetti e con lui abbiamo messo su un articolo su “Il Messaggero” in cui riprendevamo la lettera e spiegavamo la cosa. Dieci giorni dopo la lettera si sono cominciate a muovere delle cose. Mi hanno cercato. Piano piano siamo riusciti a unire Rai Cinema e un produttore come Pietro Valsecchi, che è già una cosa simbolicamente molto bella.

     

    E grazie molto a sua moglie Camilla Nesbitt, che ha amato molto Amore tossico, abbiamo costruito le fondamenta con due materiali molto diversi e da lì abbiamo cominciato a lavorare. Abbiamo scelto la produzione esecutiva, cioè i ragazzi con cui avevo fatto La mia classe di Daniele Gaglianone, la Kimera film, che hanno avuto il coraggio di accettare quest’incarico.

     

    Come avete scelto gli attori?

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    I protagonisti sono Luca Marinelli e Alessandro Borghi. Avevamo fatto i provini con Caligari e il casting, però, per esempio, Marinelli era stato previsto per l’altro ruolo. Dopo tre giorni di provini, è arrivato Claudio e ci ha detto “Cambiategli ruolo, fategli fare Cesare”. “Ma che cazzo sta a dì questo?”, ci dicevamo, e invece come Marinelli ha cambiato ruolo è cominciato il film.

     

    Il tuo ruolo, alla fine, qual è, il produttore?

    Io ancora me lo chiedo, perché alla fine mi ringraziano tutti per aver fatto questa cosa, in realtà io senza l’aiuto degli altri non sarei riuscito a fare niente. Diciamo che sono stato quello che andava al fronte, a chiedere i soldi, anche non sapendoli chiedere… BNL ci ha dato dei soldi, Andrea Leone ci ha seguito tantissimo… quindi la mia diciamo è una produzione platonica perché non ci ho messo una lira… però è un anno e mezzo che sto lavorando…

     

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    E come è venuto il film?

    E’ venuto bene. Io sono contento. Mi dispiace non aver potuto avere un confronto con lui su questa versione finale, lui aveva fatto la prima stesura e anche la seconda… poi noi siamo andati avanti. Il lavoro che abbiamo fatto in questi mesi è stato quello del missaggio, della post-produzione del film. E lo abbiamo fatto tutti insieme, ci tengo a dirlo. E’ stato un po’ come vedere crescere una torta dentro al forno. Devo controllare, fare, è un lavoro devastante e fatto con tempi molto, molto stretti.

     

    Alla fine che ti ha insegnato Caligari?

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    Io credo tanto. Se ti devo dire di che tipo, non lo so. Noi abbiamo visto un uomo che finiva la sua vita girando. Lui voleva girà, comunque, anche in condizioni impossibili… Il grosso insegnamento è stato quello di vedere in lui un tale passione per questo lavoro che gli permetteva di tenersi vivo veramente. Doveva andarsene quattro mesi prima di quando se ne è andato. Invece lui è rimasto vivo per finire il film. Che tipo di insegnamento è questo?

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