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    ESSERE LUDOVICA RIPA DI MEANA – ‘’L’ARROGANZA, IL CREDERSI CHISSÀ CHI, MI È SEMPRE SEMBRATO OSCENO. ANDANDO AVANTI CON GLI ANNI, CI SI RENDE CONTO CHE LA VITA È IMPOSSIBILE E SEI TU CHE DEVI RENDERLA POSSIBILE PER TE STESSO. UNA DELLE FORZE PIÙ GRANDI PER RIUSCIRCI È L’UMILTÀ’’


     
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    Nicoletta Tiliacos per “il Foglio”

     

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    Nel settembre del 1988, quando si avviò la lunga conversazione tra Gianfranco Contini – sommo italianista e filologo di lingue romanze – e la sua intervistatrice Ludovica Ripa di Meana – studi brevi e irregolari ma letture appassionate, grande capacità di ascolto, lavoro di redattrice in case editrici, nei giornali e in televisione – probabilmente nessuno dei due avrebbe immaginato che da quei loro incontri sarebbe nato un testo ammirevole e originale, nel quale domande e risposte avrebbero finito per modulare una “voce sola”, dando forma a un’imprevedibile invenzione letteraria.

     

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    All’uscita, nel maggio del 1989, il “ritratto autobiografico” di e con Contini intitolato “Diligenza e voluttà” apparve subito (lo è ancora, per questo sarebbe bello vederlo ripubblicato) “un unicum nel panorama editoriale, non solo italiano”. A dare questo giudizio è il critico quarantenne Andrea Casoli, che a Ludovica Ripa di Meana e al “tema dell’alterità” nella sua opera ha appena dedicato una raccolta di saggi. Pubblicata da Aracne, si intitola “Altro essendo dagli altri essendo te” (211 pagine, 15 euro).

     

    Il titolo è una citazione presa in prestito dal romanzo in versi “La sorella dell’Ave” (Camunia), il primo dei tre pubblicati dalla scrittrice tra il 1992 e il 1998, ai quali vanno aggiunti testi per il teatro e molto altro. Abbiamo detto “scrittrice” e già dobbiamo correggerci, su gentile invito dell’interessata: “Preferisco scrittore, poeta, lettore – spiega Ludovica Ripa di Meana – perché certe parole al femminile non mi sembra abbiano senso, ci vedo una sorta di svalutazione preventiva.

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    Tra la parola poeta e la parola poetessa c’è un abisso, è evidente. Lo dico in generale e non perché personalmente mi consideri davvero uno scrittore, con tutto il valore di mestiere, anche sistematico, che ha questa definizione e che non sento applicabile al mio caso. Per quanto mi riguarda, preferisco pensarmi come ‘cantastorie’”.

     

    A ottantun anni dichiarati con perfetta serenità e portati con grazia timida e aristocratica – “non capisco chi si cala gli anni, è un po’ come pretendere di fare iniezioni di botulino alla propria biografia” – Ludovica Ripa di Meana confessa di essere sempre e più che mai abitata dalla passione per le storie degli altri, più che per la propria. “Come mi piacciono le storie!”, esclama a un certo punto del suo dialogo con Contini, mentre lo invita a raccontare dei suoi anni parigini. L’“orecchio assoluto” della bambina mai stanca di favole – Ludovica è la quarta dei sette fratelli Ripa di Meana.

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    Gli altri sono Vittorio, Carlo, Saverio, Orietta, Daria e Gabriella – si è molto presto trasformato in un lavoro sui testi altrui. La rovina economica della famiglia, dopo la guerra, e la conseguente necessità di guadagnare la sottrassero precocemente – e fortunatamente? – a un regolare corso di studi.

     

    “La nostra famiglia è stata benedetta dalla povertà”, arrivò a dire Ludovica Ripa di Meana nel 1993 a Francesco Merlo, che per il Corriere della Sera la intervistava sulla rivalità politica, da prima pagina, tra i fratelli Vittorio, il primogenito, e Carlo. Il primo, avvocato e all’epoca nel consiglio d’amministrazione di Repubblica, era candidato al Campidoglio con il sostegno di Visentini e Spadolini; il secondo, da leader dei Verdi, sosteneva invece Francesco Rutelli.

    LUDOVICA RIPA DI MEANA LUDOVICA RIPA DI MEANA

     

    Fu dunque quando i Ripa di Meana da “bimbi ricchi si trasformarono in adolescenti poveri”, che si aprì per Ludovica la strada che l’avrebbe portata a collaborare, giovanissima, con Giorgio Bassani da Feltrinelli (la Micòl del “Giardino dei Finzi-Contini” ebbe così nella glaucopide ed esile Ludovica il suo modello fisico) e con Elio Vittorini da Mondadori (“era il generale e l’esercito ero io.

     

    Federico Zeri (1921-1998) - Critico Darte Federico Zeri (1921-1998) - Critico Darte

    A Milano per due anni sono stata il suo unico soldato semplice: correggevo le bozze e facevo tutto il lavoro di redazione, compreso il passacarte”). Due guide di eccellenza, dunque, per la futura “cantastorie”. Alle quali, sempre negli anni milanesi, si sarebbe aggiunto un grande amico dai connotati fraterni, Raffaele Crovi (morto nel 2007) che con le case editrici da lui fondate, Camunia e poi Aragno, sarebbe anche diventato l’editore elettivo di Ludovica.

     

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    Non è difficile capire, come sottolinea Andrea Casoli, che dall’esperienza in quelle speciali officine rappresentate dalle case editrici italiane tra gli anni Cinquanta e Sessanta, deriva alla giovane autodidatta “non solo un atteggiamento più incline alla libertà e meno ossequioso della tradizione e dei canoni, ma anche e soprattutto una disposizione ad affrontare i testi da una specola tutta personale, individuale, persino a tratti deliberatamente solitaria, senza i filtri preliminari della critica e dello studio. E questa irregolarità, questa libertà, questa sfrontatezza e inclinazione a vivere il rapporto con i testi in prima linea, corpo a corpo, tornano nelle pagine di Ludovica Ripa di Meana” e sono anche il segreto delle sue interviste autoriali.

     

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    Non solo quella con Contini ma anche quella con Federico Zeri, e quella televisiva con Carlo Emilio Gadda. “La morte di Gadda”, pubblicato nel 2013 da nottetempo, raccoglie le pagine del diario, rimaste inedite per quarant’anni, che Ludovica Ripa di Meana tenne negli ultimi mesi di vita dello scrittore, quando lei e pochi altri si alternavano nella casa romana dell’ingegnere per leggergli i “Promessi sposi”: “A un certo punto, nel testo c’è un richiamo a Renzo Tramaglino. G* comincia a piangere. Interrompo la lettura, poso le mani sulle sue e gli chiedo perché ‘I promessi sposi’ lo sconvolgano sempre tanto. Scuote la testa e dice: ‘Ma queste sono cose che non si possono spiegare’”.

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    Quel diario scritto da Ludovica per sé, nota ancora Casoli, tralascia “ogni esigenza del lettore, ne ignora le aspettative, non lo prevede affatto”, ma proprio in virtù di questo “lo coinvolge, lo sorprende, lo tira dentro a una questione privata”, che è poi una delle chiavi per leggere tutto quello che Ludovica Ripa di Meana scrive.

     

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    Eppure non esisterebbe un poeta e nemmeno un “cantastorie” Ludovica Ripa di Meana se a istigarla – letteralmente – non ci fossero stati in particolare un uomo e una circostanza. L’uomo è naturalmente Vittorio Sermonti, che da trent’anni vive con lei un sodalizio diventato anche matrimonio: “C’è stata e c’è la passione senza stanchezza per il lavoro che Vittorio fa su certi grandissimi autori (la cura e le letture pubbliche della ‘Divina Commedia’ di Dante, poi l’‘Eneide’, e ora la traduzione per Rizzoli delle ‘Metamorfosi’ di Ovidio, che dalla prossima settimana Sermonti leggerà tutti i giorni su RadioTre, alle 17, ndr); e c’è stata una terribile crisi d’asma, nell’estate del 1988, durante un viaggio in Francia.

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    Gianfranco Contini Gianfranco Contini

    E’ dopo quell’esperienza al confine con la morte che Vittorio mi ha incoraggiato a scrivere. Non riuscivo a dormire per paura che la crisi si ripetesse, e la sua idea era che potessi superare quella paura mettendola sulla carta, descrivendola”. Ad “Asma”, testo rimasto inedito – “ed è giusto che sia così”, dice oggi Ludovica Ripa di Meana – è dedicato un capitolo del libro di Andrea Casoli, che è anche l’unica occasione per leggerne alcuni brani.

     

    Scrittura segreta e autoterapeutica, “Asma” parla della mancanza di respiro come assenza di parola, e in fondo come ricerca dolorosa di una propria voce. Attraverso la voce trovata – la scoperta della propria tonalità – si definisce e si completa la metamorfosi della lettrice e redattrice “diligente e voluttosa” in autore: “Vittorio ha sobillato la piccola muta accucciata nel fondo di me a cantare le sue storie.

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    Lui è l’unica persona al mondo che mi ha permesso di liberare, di esprimere per intero il mio intelletto d’amore, senza limiti, nella sua inesauribilità. Per intenderci, mi ha permesso di coincidere. Da quando sono nata ho cominciato a aspettarlo: a cinquant’anni è arrivato. Ne valeva la pena. Tutte le pene”.

    BARBARA PALOMBELLI LUDOVICA RIPA DI MEANA BARBARA PALOMBELLI LUDOVICA RIPA DI MEANA

     

    E’ Sermonti a raccontare, nella sua postfazione al saggio di Casoli, un episodio che riguarda Contini e Ludovica: “Anno 1987, Firenze, mezzanino di via Lorenzo il Magnifico, mi sto congedando dal professore, e lui, campito nel vano della porta dove abbiamo lavorato a un paio di canti dell’‘Inferno’ di Dante, forza la voce per dirmi: ‘E mi saluti tanto Ludovica; ma tanto; perché Ludovica è bella, è elegante, è molto intelligente, cose che possono succedere a molte; ma una cosa ha, rarissima’, e brandiva biblicamente l’indice della mano destra in una sorta di mosaicità casalinga: ‘la carità’”.

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    Carità, caritas, cioè amore. Ludovica Ripa di Meana dice che “Contini, nel dire quella cosa di me, legava di certo l’attenzione all’amore. Ha sentito il mio amore, la mia attenzione per la storia della vita dell’altro da me (per la sua vita, nel caso particolare). E’ una forma dell’amore molto forte e profonda, tanto che quando non posso esercitarla ne soffro. Non si tratta di talento o di applicazione o di premeditazione.

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    E’ come per la fede. Ci sono persone che credono naturalmente e persone che non credono, altrettanto naturalmente. E’ una delle variabili di quella grandissima incognita che è l’essere umano”. Capita così che a lei, “solo con la quinta ginnasiale, senza saper nulla di storia, di filosofia, di geografia, siano misteriosamente risultati congeniali e comprensibili anche testi considerati inaccessibili, come l’‘Ulisse’ di Joyce o lo stesso Gadda”.

     

    Leggere Gadda, dice, “per me è stato come trovare un mio idioletto”, una lingua istintivamente conosciuta. Per raccontare la fase feconda della sua scrittura – quella dei romanzi in versi e dei testi teatrali, che si è conclusa nel 2006 con “La fine degli A” – Ludovica Ripa di Meana dice semplicemente che “le parole non le cercavo, mi salivano dal buio, affioravano come ninfee sull’acqua. Quando ho cominciato a scrivere ero sgomenta, come posseduta dallo stupore e dalla felicità”.

     

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    Nella postfazione a “La fine degli A”, Saverio Vertone scrisse che in lei “domina un atteggiamento verso la lingua di cui da secoli non c’è traccia nella letteratura italiana”, e che è “frutto di un’assoluta libertà interiore”. La vita nascosta – la doppia vita – delle parole, anche delle più abusate e prosaiche, per Ludovica Ripa di Meana diventa una rivelazione “che va oltre il suo significato contingente ed eleva anche le vicissitudini di una merceria, di una portineria o di una terapia intensiva alle altezze del mito e dell’aura tragica che lo avvolge”.

    PAOLO MIELI E LUDOVICA RIPA DI MEANA PAOLO MIELI E LUDOVICA RIPA DI MEANA

     

    Lo stile è “per definizione preterintenzionale”, scrive ancora Vertone, e quindi “agli antipodi dell’affannata premeditazione che affiora così frequentemente nei più svariati esperimenti della letteratura contemporanea”. In “Diligenza e voluttà”, Ludovica dice a un certo punto a Gianfranco Contini: “Senta, professore, Manzoni aveva orrore per l’uso del verbo ‘creare’ applicato al lavoro dello scrittore. Oggi non si fa che parlare di ‘creatività’, Non è un abuso ridicolo?”.

     

    “Ah, certo! – le risponde il filologo – sia che si tratti di creatività scrittoria – ma questa può essere ricondotta all’uso, diciamo, dell’idealismo –, sia quando si tratta di creazione quotidiana: ma quest’uso, non so se lo si sappia comunemente in Italia, è un francesismo. Ricordo di aver una volta parlato con un imbecille che aveva fondato un certo Centro: ‘Le Centre que j’ai créé’. E questo ‘creare’ in francese era normale, è normale nella moda, dappertutto (…) Cioè, i francesi non hanno assolutamente lo scrupolo teologico di Manzoni che, un tantino, ha inficiato gli italiani”.

    Ludovica Ripa Di Meana e Vittorio Sermonti - Copyright Pizzi Ludovica Ripa Di Meana e Vittorio Sermonti - Copyright Pizzi

     

    Da questo sapido scambio, traspare il culto per la sprezzatura – forma elegante dell’umiltà – che fa parte del gusto e del tratto umano, oltre che autoriale, di Ludovica Ripa di Meana: “Sono stata educata a essere umile, l’umiltà è una forma fondamentale dell’educazione. L’arroganza, il credersi chissà chi, mi è sempre sembrato osceno. La mia è una reazione estetica? Credo di sì. Ma andando avanti con gli anni, ci si rende conto che la vita è impossibile e sei tu che devi renderla possibile per te stesso.

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    Una delle forze più grandi per riuscirci è l’umiltà, su cui Simone Weil ha detto l’essenziale. Solo così puoi tentare di stare in mezzo all’enigma inesplicabile dell’essere al mondo insieme con miliardi di altre persone. E per questo mi sembra così vana la lettura sociologica degli esseri umani, così come quella economica. Le letture numeriche sono importanti, naturalmente, è giusto che si facciano. Ma che si possa decodificare attraverso quelle letture anche una sola delle contraddizioni che abitano la collettività e un singolo essere umano, è un’illusione”.

     

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    Oggi, con il suo bel sorriso di ragazza, Ludovica Ripa di Meana racconta della più recente metamorfosi che la riguarda, e che le fa considerare superata la necessità di scrivere “se non per me, gli appunti che continuo a prendere”. E’ finito “il momento del contagio, è arrivato quello di scrutare la vecchiaia, su di me e sugli altri. Su di me per capire dov’è il dolore e la mortificazione attribuiti a questa età, e perché della vecchiaia si ha tanta paura.

     

    Ludovica Ripa Di Meana e Vittorio Sermonti - Copyright Pizzi Ludovica Ripa Di Meana e Vittorio Sermonti - Copyright Pizzi

    Eppure non mi sembra così orribile, anche se vedo tante persone che della propria vecchiaia si adontano. Perdi potere e forze, cambia il rapporto con gli altri. Ma quando le forze sono ridotte e ogni giorno ne hai di meno, quello che sei e che sai del mondo lo vedi con un nitore, con una profondità di campo inimmaginabili in età diverse. Come Pierre Bezuchov a Borodino, in ‘Guerra e pace’, scruti il campo di battaglia e ti assumi l’interezza di ciò che vedi”.

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