Ethan Zuckerman
Jaime D’Alessandro per “Robinson - la Repubblica”
Classe 1973, stazza imponente, pensiero affilato. Ethan Zuckerman, direttore del Center for Civic Media del The Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, è un attivista noto per le sue posizioni controcorrente. Sembra il classico esponente di quella classe di intellettuali americani che alle ultime elezioni ha perso due volte: prima con la candidatura di Hillary Clinton troppo vicina all'establishment, poi con la vittoria di Donald Trump.
In realtà, nel suo saggio Rewire: Cosmopoliti digitali nell'era della globalità (Egea) aveva scritto già nel 2014 che stavamo per prendere un abbaglio: una società connessa non significa una società più aperta e cosmopolita. Anzi, a volte la tecnologia ha l'effetto contrario. Fra filtri, algoritmi e ora anche notizie bufala, finiamo per isolarci in gruppi omogenei dai quali la diversità è bandita.
notizia falsa
A quanto pare, professor Zuckerman, aveva ragione lei: la tecnologia non ci rende persone migliori, né più aperte o tolleranti. E non ci sta dando governi migliori.
«No, nulla di tutto questo sta accadendo. Per una volta la risposta è semplice: la visione positivista della tecnologia non funziona».
Cosa scriverebbe oggi di diverso nel suo saggio?
«Più che riscrivere, pubblicherei un nuovo libro. Quello che farò a breve. Al centro c' è il tema della diffidenza. Nel 2014 non avevo considerato quanto la frustrazione fosse profonda. Oggi la diffidenza nei confronti dei governi, delle istituzioni, dei media è planetaria. Ed è così forte da portare tanti a scegliere solo quei contenuti nei quali si rispecchiano rifiutando il resto. Diffidiamo così tanto di quel che non ci somiglia, che nessun messaggio di altro genere riesce ad arrivare».
Ethan Zuckerman
Le polarizzazioni, il dividersi in tifoserie, non sono una novità. Soprattutto in Italia.
«Voi avete una stampa di sinistra e una di destra. Ma scrivono delle stesse cose, solo da punti di vista opposti. L'agenda è solo una. Sui social network invece l'agenda non esiste. Le tifoserie semplicemente parlano di cose diverse e fra di loro non interagiscono. L'oggetto del discutere non è il medesimo. Siamo così divisi da non essere nemmeno d'accordo su cosa è importante».
Tutti i social network stanno cercando di correre ai ripari. Questo significherà tentare di stabilire una gerarchia delle informazioni. Come fanno i giornali e gli editori da sempre.
«Il punto non sta nel fatto che Mark Zuckerberg, a capo di Facebook, voglia diventare un editore, ma quale tipo di editore vuol essere. Nel mondo dei quotidiani, storicamente, ci sono due linee guida: una è quella di guadagnare vendendo copie e spazi pubblicitari, la seconda è quella di fornire le notizie in una società democratica.
fake news
Deontologicamente dovrebbe essere la seconda a prevalere nel caso le due linee finiscano per confliggere. Ogni buon giornale insegue le storie che reputa rilevanti. Facebook è ottimizzato per distribuire informazioni che coinvolgano il più possibile gli utenti. Una notizia che ti fa sorridere o ti fa arrabbiare, ma è sempre qualcosa che tu vuoi vedere.
Se davvero a Facebook si ponessero il problema dell' informazione, dovrebbero puntare su contenuti coraggiosi che non necessariamente le persone vogliono leggere, ma che sono importanti. Non mi sembra che Zuckerberg abbia fatto questo salto di qualità».
Ma ha riconosciuto il ruolo giocato dalle notizie bufala.
tasti falso e vero
«Alle notizie bufala si sta dando troppa importanza. Sono molto meno rilevanti di quel che si crede. Stando ad alcune analisi che la Harvard Law School renderà pubbliche fra poco, basate sulla piattaforma open source Media Cloud della quale sono fra i fondatori, il primo sito di notizie false è al centosessantatresimo posto nella lista di quelli che hanno avuto più influenza durante le elezioni.
Le notizie fasulle non sono invisibili, ma è un fenomeno piccolo. Il problema è un altro: una certa parte della società, alla quale appartengo, si compiace pensando che la parte avversa abbia votato Trump perché ingannata da notizie false. E invece sono persone che hanno un' opinione e valori radicamenti diversi. Optare per la teoria della disinformazione è solo un modo per raccontarsi una storia più facile da accettare».
trump versus jeb bush
Lei, professor Zuckerman, è spaventato?
«Quello che mi spaventa è la facilità con cui si può costruire un movimento che prende piede da una diseguaglianza e poi non riesce a produrre nessun cambiamento positivo finendo per aumentare delusione e diffidenza. Pensi alla primavera araba.
L'unirsi nella diversità di opinioni è fenomeno sempre più raro e quando si è verificato è successo solo per opporsi e mai per proporre. Ed è quello che sta accadendo qui negli Stati Uniti con Donald Trump. È stato eletto da uno spettro di persone molto più vario di quel che si pensa e tutti volevano un cambiamento. Peccato che ora Trump rappresenti solo una sparuta minoranza dotata però di un potere enorme».