Mario Luzzatto Fegiz per corriere.it
EUGENIO FINARDI 33
Correva l’anno 1974. Negli studi di Radio Milano Centrale (poi diventata Radio Popolare) Eugenio Finardi ha appena finito di condurre la sua trasmissione. Ha mescolato generi diversi, da Scarlatti agli Stones. In corridoio c’è una sorta di commissario politico che lo apostrofa: «Basta con queste canzoni che addormentano le masse, dovresti rileggerti Marx e Lenin!» E lui: «Io leggo Tex Willer e ti mando a quel paese!». «Non ricordo molto di quel passato, di tutto il passato. Ma è verosimile che sia andata così. Marx, Lenin che due palle. Ci sono cose che vengono sopravvalutate.
demetrio stratos
La rovina dell’Italia è il liceo classico. Dove si punta sulla Parola e non si studia Musica. E quando si studia Storia dell’arte (come mia figlia) si punta sul mnemonico, tipo “come si chiamavano le tre piattaforme che stanno alla base dei templi greci...”. Io penso che la cultura debba andare a tutto campo, spaziare... la cultura cinese... cosa c’era in India prima degli inglesi. Mi piace il suono di lingue che non conosco... mi piace il greco: Thalassa, il mare. Mi piace surfare da un concetto all’altro senza necessariamente approfondire. Questo è il tipo di cultura che io concepisco: un po’ di tutto e un po’ di niente. Mi affascina più la scienza, la fisica (la musica è fisica!)».
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Lei è «americano»...
«Sono nato a Milano in via San Vittore alla clinica San Giuseppe, ma mi hanno cresciuto da americano. Negli Stati Uniti ho però scoperto che gli americani mi stavano sulle balle. Mia madre Eloise Degenring era americana, mio padre, bergamasco, dirigente industriale anticomunista viscerale, la portò in America. Ma io restai qua. L’inglese è la mia lingua madre. L’italiano la mia lingua padre. Con i miei tre figli parlo italiano e inglese, la piccola parla cinque lingue e sta laureandosi in cinese».
La musica?
«Ci sono letteralmente nato dentro. Mia madre era una cantante lirica. Bravissima. Ma era albina e ipovedente e non riusciva, per via delle luci, a vedere gli attacchi del direttore. Così faceva recital, cantava alla radio, ma non in teatro. Abitavamo vicini alla Rai di Corso Sempione. Nella quotidianità domestica facevamo surf tra italiano e inglese. Ancora adesso guardo la tv in inglese con i sottotitoli in italiano... se mai mi dovesse sfuggire qualcosa. Ascolto in inglese e leggo i sottotitoli in italiano.
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Non c’è scontro, non c’è fatica, è come se fosse la stessa lingua... È questo è il mio dramma. Una specie di stereoscopio che mi segna il carattere: uno dei miei pregi — che è anche un difetto — è percepire cosa pensa il mio interlocutore. Riesco a vedere ogni lato di una questione e intuire bene cosa pensa l’altro. Strumentalizzo questa capacità percettiva. Se voglio piacere mi adeguo, ma spesso sono polemico e bastian contrario».
Come l’ha scoperto?
«Sarà una regalo di mia mamma albina. Citando Walt Whitman: “Mi contraddico? Ebbene sì, contengo moltitudini”. Alla mia diversità ha contribuito l’avere un sacco di amici di famiglia ebrei. Mi sento come un ebreo newyorkese con quel humor provocatorio alla Woody Allen».
Quando ha scoperto di essere artista?
«Lo so da sempre. Ho inciso il primo disco a 9 anni. Non ho mai dubitato di essere artista, ma è anche una condanna».
Ha avuto sponsor importanti...
«Mara Maionchi mi ha portato alla Numero 1, la casa discografica di Mogol e Battisti. Una delle sue prime scoperte. Sono stato a casa di Battisti al Dosso. Io avevo portato dall’America un sacco di dischi da noi introvabili come i Weather Report, Bob Marley. Battisti era timido, ma molto curioso. Mentre io ero esuberante. Ricordo una stanza grande, quasi vuota, con enorme divano e grandi casse di amplificazione. Mi piacciono le canzoni di Battisti, i testi di Mogol».
Ma chi l’ha aiutata?
«Demetrio Stratos degli Area, che mi portò alla Cramps, e Graziani. Ivan era generosissimo. C’era un locale in Brera che faceva musica dal vivo. Ivan aveva creato una sorta di “chitarra-bar”. Girava per i tavoli, faceva canzoni a richiesta. Lui preferiva i Beatles. E aveva la timbrica giusta. Prendeva ventimila lire a sera, che era tantissimo all’epoca. Ogni tanto però gli chiedevano anche pezzi dei Rolling Stones. Mi offrì metà del suo stipendio affinché lo supportassi sul rock blues. Condividemmo lo stage e la cassa. Incredibile. Poi c’è stato Gianni Sassi, pubblicitario e intellettuale provocatorio, parlavo con lui e mi veniva l’ispirazione. Sapeva stimolare la creatività».
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«La radio», «Extraterrestre», «Musica ribelle», «Scimmia»: ha scritto brani celebri...
«Sì ma da 20 anni non sono più nel business. Nel 2002 sono stato liberato dalla Warner. Da allora solo progetti speciali. Uno dei momenti topici della mia vita: ero a New York a registrare l’album Occhi, l’unico disco che ho realizzato all’estero. Abitavo a casa dei miei genitori mentre loro svernavano in Florida e andai a trovare Ruby Marchand, pezzo grosso della Warner. Lei ascoltò i miei lavori e alla fine disse: “Non sei abbastanza italiano per vendere nel mondo. Noi abbiamo bisogno di artisti come Zucchero o Ramazzotti».
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Come ha visto cambiare il mondo?
«Abbiamo avuto grandi modelli: Led Zeppelin, Miles Davis... Ma poi Battiato cambiò tutto. Il suo era un gruppo di lavoro affiatato: Alice, Giuni, Giusto Pio, Cacciapaglia. Mi ricordo di essere andato in studio da Radius mentre stavano lavorando a Patriots. A Franco interessava l’originalità del suono. Era il re dei sintetizzatori e si trovava a suo agio con gli anni Ottanta. Oggi non seguo molto le tendenze italiane e straniere. Qualche volta qualcosa mi cattura, come la trap perché riesco a seguire le parole».
In una mia recensione scrissi che lei lavorava con non più di 50 vocaboli?
claudio baglioni concerto in vaticano 2
«Vero. È una cosa voluta. Parla come mangi... La chiave era la semplicità, ma colta non ignorante. Sono l’unico cantante pop che è arrivato alla Scala nel 2010 come voce narrante con l’ensable Entr’Acte. Il palco della Scala era il sogno di mia madre, morta nel 2013. L’ho accontentata».
La sua prima figlia si chiama Elettra. Ha 40 anni e ha la sindrome di Down.
«Anche questo è un dolore che non passa mai».
Per molti anni lei mandava a tutti, colleghi, amici e giornalisti un sms in cui ricordava il compleanno di sua figlia Elettra e forniva il suo numero. Era un appello struggente... Da qualche anno non arriva più questa richiesta.
«È invecchiata. Non voleva più. Vive in una casa famiglia. Adesso non ha più il telefono, le crea ansia. Il primo pensiero quando è nata e ho saputo che era Down fu: “Neanche in questo sono riuscito ad essere come tutti gli altri”. Io mi sono sempre sentito diverso. E lo ero. Anche grazie a una madre protestante».
Si professa ateo.
EUGENIO FINARDI
«Ecco un bell’argomento. Io mi sono interrogato molto sulla natura di Dio. Il Dio della Bibbia, il Dio del Corano, sembra severo, ma anche geloso: i primi Comandamenti sono incentrati sul concetto: “Non avrai alcun Dio al di fuori di me”, mi sembrano espressioni di fragilità... Dio per me è l’Universo. Le sue leggi sono veramente immutabili e indiscutibili, la gravità, la forza centrifuga, insomma le leggi della fisica. E la musica è un sacramento... una “terza”, una “quinta”. Le dodici note. Fra loro vi sono relazioni assolute, regole precise cui dobbiamo obbedire ovunque. L’Universo ha creato se stesso. Con lui sono nati lo spazio, il tempo. Tutto. Ma Dio se ne frega di cosa facciamo, come mangiamo, ci vestiamo, ci laviamo... Noi lo bestemmiamo distruggendo la terra che ci sta ospitando. Dovremmo mettere la conoscenza in primo piano e ammettere la nostra ignoranza. Il peccato è credere di aver capito tutto mentre non è vero. La verità si svela, non si rivela».
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Che rapporto ha con Milano?
«La amo molto. Città accogliente per disadattati come me. È la città di Leonardo».
Socializza con colleghi?
EUGENIO FINARDI
«Sì con Alberto Camerini. In passato con Demetrio, Fabrizio De André, Battiato. Baglioni, dolce e sensibile, si informava sempre su Elettra. La chiamava al telefono. Cortese, attento anche nei dettagli. Gianna Nannini e poi Ligabue che mi ha invitato al prossimo concerto al Campovolo».
Nuovi artisti?
«Non li conosco, non so cosa facciano. Mi piacciono i Måneskin perché mi ricordano di com’ero io alla loro età».
Polemico?
«Sì, ma solo a livello verbale. Non sono mai stato un fan né un enciclopedista. Tutto mi piace e tutto mi stufa. Non riesco a divinizzare l’artista. Quello con cui ho litigato di più sono io stesso. Extraterrestre è il mio pezzo più noto. Fu anche il mio primo insuccesso. Dicevano che avevo tradito. Cambiar rotta è rischiosissimo per un artista. Bennato per esempio non è mai cambiato, ha ancora la maglietta Campi Flegrei n.69».
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Musica, libri, giornali?
«Guardo soprattutto le televisioni all news internazionali. Perché non devo mettere gli occhiali. Leggevo e leggo di tutto. Mi piacciono i libri di scienza e filosofia. La narrativa mi interessa meno».
Qualche anno fa scrisse una canzone, «Come Savonarola», che recitava così: «Non hai fatto un grande affare, ad andarti a innamorare di uno come me, che sto invecchiando male fra rabbia e delusione e un futuro che non c’è, e il mondo che sognavo e tutto ciò per cui lottavo, ora sembra inutile. Hanno vinto i culi stanchi, gli arrivisti, gli arroganti che più falsi non ce n’è». Ancora su questa linea?
«Sì, forse ancora di più. Sono deluso dall’uomo. Abbiamo la violenza dentro come i maschi in amore nei documentari. Speravo fossimo migliori, ma siamo solo più bravi a combattere».
EUGENIO FINARDI