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    "EUGENIO SCALFARI, CAPO PARTITO SENZA PARTITO" – IL RICORDO DI FILIPPO CECCARELLI – LA COLLABORAZIONE CON IL PERIODICO "ROMA FASCISTA" E IL PRIMO ARTICOLO SU UN GIORNALINO DELL’AZIONE CATTOLICA – IL DIALOGO CON BERLINGUER E DE MITA, AGNELLI “L’AVVOCATO DI PANNA MONTATA”, LE INIMICIZIE CON CRAXI-GHINO DI TACCO, CEFIS E BERLUSCONI - LA PLAUSIBILE LEGGENDA CHE L’HA VOLUTO DEMIURGO DI PASSAGGI DECISIVI: DALLA SVOLTA MODERATA DI LAMA ALLE PICCONATE DI COSSIGA DALLE NOMINE DI DE MITA (PRODI ALL’IRI) FINO AL PDS DI OCCHETTO… - TWEET DI BERLUSCONI+VIDEO


     
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    I 96 anni di Scalfari by Macondo

    90 anni di Scalfari

    Filippo Ceccarelli per repubblica.it

     

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    La grande e nobile tradizione giornalistica italiana, da Scarfoglio ad Albertini, da Mussolini a Gramsci, è connaturata all’interventismo. Osservare e interpretare, ma soprattutto modificare la realtà. Questo è stato e questo specialmente ha fatto, con imprevedibili risonanze, Eugenio Scalfari: giorno dopo giorno per oltre 60 anni, l’arco di due repubbliche e mezzo, a suo modo segnando la trasformazione di un paese contadino e papalino nell’Italia di oggi.

     

    In mezzo c’è la storia, così piena di fatti e parole che a Scalfari fanno pensare. Gli intrighi del Sifar e la Razza Padrona, la linea della fermezza e il brigante Ghino di Tacco, espressioni entrate di forza nell’immaginario; come pure la plausibile leggenda che l’ha voluto di volta in volta consigliere, architetto o addirittura demiurgo di passaggi decisivi: dalla svolta moderata di Lama al consenso su Pertini, dalle picconate di Cossiga alle nomine di De Mita (Prodi all’Iri) fino alla gestazione, che si paventò “eterodiretta”, del Pds di Occhetto.

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    E se pure in nulla l’odierna società politica italiana assomiglia a Scalfari, beh, torna a suo onore l’indipendenza di «giornalista politico d’intervento — come lo definì negli anni ’80 Giorgio Bocca — capo partito senza partito». Da tutti i potenti riconosciuto come un orgoglioso ed enigmatico governante ombra, là dove l’ombra, lungi dall’evocare oscurità, traeva la sua fuggevole natura da un uomo che al dunque rispondeva solo a se stesso e al suo immenso talento nel comprendere e raccontare la vita pubblica, fulgori e magagne, comunque alla luce della passione culturale.

     

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    Innumerevoli gli scoop, imprescindibili le analisi, inesorabili le polemiche; di istruttiva e godibilissima lettura, oggi più di ieri, l’autobiografia, che il direttore di Repubblica intese personale e di gruppo, La sera andavamo a via Veneto (Mondadori, 1986). Non molto tempo fa lo storico Tassani ha scovato il primo articolo di Scalfari adolescente su un giornalino dell’Azione Cattolica; giovanissimo, prima di essere espulso dal Pnf, collaborò con il periodico Roma fascista. Ma il suo vero imprinting fu il liberalismo crociano. Un’Italia laica, di minoranza, ma senza complessi d’inferiorità, anzi.

     

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    Al Mondo di Pannunzio le idee politiche s’intrecciarono con un giornalismo elegante e scanzonato, l’impegno nella sinistra del Pli con i convegni dell’Eliseo, la battaglia contro i monopoli con la campagna contro il sacco di Roma, la Marsigliese con la fondazione del Partito radicale. Tutto questo mondo, che aveva come colonne Ernesto Rossi e Ugo La Malfa, il trentenne Scalfari cercava con altri di coinvolgere nell’imminente centrosinistra. «Cambiare musica e suonatori», l’Espresso ebbe subito questa ambizione. Nel Psi si orientò verso Riccardo Lombardi e il gruppo della Programmazione. Nel 1968 fu anche eletto deputato. Ma nel campo dell’economia — dove da giornalista apprese il senso dell’impresa, il dominio del denaro e l’importanza dei rapporti di forza — guardava al governatore di Bankitalia Guido Carli.

     

    LAMA, ANDREOTTI, SCALFARI LAMA, ANDREOTTI, SCALFARI

    Pochi hanno conosciuto da vicino Fanfani e Moro, Mattei e Olivetti, Saragat e Merzagora, Spadolini e Ciampi. Molti altri Scalfari ha lodato, vezzeggiato, stuzzicato e poi, spesso e volentieri, anche disprezzato e preso di petto: da Togliatti ad Andreotti (e il pensiero va al serrato dialogo de Il Divo di Sorrentino), da Agnelli («L’avvocato di panna montata») al primo Cossiga, da D’Alema fino al giovane Renzi passando per Pannella. È difficile d’altra parte trovare regole o costanti nelle avversioni o nelle preferenze di un giornalista vissuto come un mito: illuminista, equilibrista, attore, profeta, libertino, giacobino, giocatore d’azzardo, corsaro, predicatore, torero, domatore e perfino centauro.

     

     

    PRODI SCALFARI PRODI SCALFARI

    Con qualche approssimazione si può ipotizzare che l’intuito, ma forse sarebbe meglio dire il prodigioso istinto di Scalfari l’avessero portato con l’esperienza a coltivare una sorta di felice flessibilità che a sua volta gli consentiva di acquistare i lettori, che lo veneravano, proiettando la sua provvisoria benevolenza su questo o quel partito, questo o quel leader. Ciò nondimeno con alcuni personaggi non riuscì quasi mai a coesistere, e anzi sembrava ben lieto di incrociare le armi, queste ultime calibrate secondo una scala polemologica che dal raffinato dileggio, attraverso la più meticolosa enunciazione di circostanze a carico, giungeva all’allarmata rampogna.

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    Per cui prima Cefis, poi Craxi e infine Berlusconi ebbero sempre da lui e dai suoi giornali la più viva ostilità, e anche pane per i loro denti. Fu così ampiamente ricambiato, nel corso di un trentennio. Il progetto più impegnativo e ambizioso che si assegnò, negli anni ’70 e ’80, fu quello stabilire un’intesa tra la borghesia imprenditoriale e il Pci di Berlinguer, gigante impacciato e prigioniero di dogmi, favorendone l’evoluzione in senso liberale. Ma i tempi e la morte di Berlinguer non giocarono a vantaggio di questo processo. Quindi si concentrò sulla Dc di De Mita, anche in quel caso cercando di forzare la natura dello scudo crociato sul piano del rigore. Ma anche gli sforzi di De Mita furono vani e venne il Caf.

     

    Il crollo della Prima Repubblica sorprese Scalfari fino a un certo punto. Nel corso della buriana appoggiò senz’altro Mani Pulite, senza poi dare tregua al Cavaliere. Comprese senz’altro la necessità di Prodi, del Pd e certamente gli piacque Veltroni. Ma in definitiva, dopo una vita così lunga e ricca, ciò che più rimane impresso dello Scalfari politico è quanto scrisse più di mezzo secolo fa, rivolgendosi a quello che fino a poco prima considerava il suo maestro e con cui stava ormai rompendo: «Non ho mai presunto di essere depositario di assolute verità, proprio perché le convinzioni liberali mi impediscono d’acquietarmi una volta per tutte in una verità rivelata, quale che sia il “papa” che me la riveli». Colpisce ovviamente quell’accenno al Papa, ma ancor più la sostanza di un uomo che solo oggi appare più coerente di quanto si sia mai pensato.

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