Testi di Ezio Bosso estratti dal libro “Faccio musica” e pubblicati da La Repubblica
EZIO BOSSO
C' è un vecchio detto degli afro-americani: «Non puoi controllare quello che gli altri dicono di te. Ma devi sempre assicurarti che scrivano almeno correttamente il tuo nome». E anche se spesso il mio nome viene scritto male - Enzo, Enzio, Ezzio -, penso sia un concetto bellissimo. Non è facile, ve lo assicuro. Perché quello che sto facendo porta anche ricordi dolorosi, perché è difficile scegliere cosa è essenziale e cosa no, quando sei consapevole che lo è tutto, soprattutto il respirare. E poi perché io scrivo davvero male. Ma di una cosa sono sicuro. Ciò che ho fatto, ciò che ho raggiunto e ottenuto, esiste grazie al famoso concetto dell'«essermelo guadagnato» in ogni piccolo passo e dall' indiscutibile fatto di essere un essere fortunato, anche se chi vede le ruote o il mio corpo tende per pregiudizio a non pensarlo. E soprattutto dall' esigenza della musica nella mia vita.
EZIO BOSSO
Dall' avere desiderato la musica da sempre, e forse oggi azzarderei anche di essere evidentemente stato desiderato da essa da sempre. La mia famiglia non era abbiente e sono nato in un quartiere della Torino operaia degli anni Settanta.
Questa è la chiave per entrare in una parte di cosa ha definito la mia carriera, perché vi chiederete? Perché la mentalità di un operaio, specialmente del Nord Italia, nei confronti dei suoi figli era solo quella di riuscire a dargli un futuro un poco migliore del suo, a farlo studiare.
EZIO BOSSO ALBA PARIETTI
*** La musica rende belli Qui vorrei dire che la musica ci rende belli. Io per esempio sono bruttino, ma quando dirigo sembro bellino. E mi sento anche bellino, supero i complessi estetici del mio stato, come dico sempre, trascendo me stesso anche esteticamente. E sono giunto alla conclusione che se un direttore è bello quando dirige abilmente è anche bravo e da ascoltare, perché in quella bellezza ottenuta all' abbandono alla musica, alla trascendenza del sé, c' è già un sintomo di approccio corretto.
ezio bosso 1
*** La malattia non migliora nessuno È come un fiume carsico, per un po' scompare, ti sembra scomparso, poi riaffiora e spesso non dai nemici, ma proprio dagli amici, anche quelli che nel fondo lo sai che ti vogliono bene. Fa rabbia. Mi fa rabbia. Razionalizzo, mi dico che se per secoli per essere più buoni, ci siamo messi il cilicio, ci siamo fustigati, abbiamo digiunato, rinunciato alle cose belle della vita, allora è impossibile estirpare questa idea che il dolore redima, migliori, ci renda esseri superiori, come se la vita, che tanto veneriamo, in sé fosse peccato. E chi sono io per negare una convinzione radicata nei millenni, per dire che gli stiliti non erano migliori solo perché emaciati. Che il dolore innervosisce, e nessuno è più buono se soffre. Anzi. Il dolore, come la paura, non migliora nessuno, di certo non me; questo equivoco ricorrente, che mi insegue strisciante, detto e non detto, a volte secondo me manco si accorgono che lo dicono, gli scappa proprio con la disinvoltura d' abitudine di un «ciao». Per alcuni nemici poi il dolore sembra un privilegio: ha successo perché soffre. Bestialità. Svilimento di ciò che faccio. Nessun rispetto, per se stessi in primis. Ma poi, anche lì, chiunque non stia bene si espone, lo dice, comunicati stampa di gente, di «artisti» che parlano di malattia invece che di ciò che fanno. La lista è lunga. Ci marciano. E allora perché io dovrei essere diverso da quelli. C' è una logica. Pessima. Ma pur sempre logica.
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