fabio cantelli
La scuola con profitto, poi improvvisamente la droga, e infine l’ingresso in comunità terapeutica, a San Patrignano. Fabio Cantelli Anibaldi racconta «Sanpa» — dove ha vissuto 10 anni, prima come ospite e poi come portavoce e responsabile dell’ufficio stampa — in un video incontro con Micol Sarfatti, di 7. «Fu galeotto l’incontro con una ragazza di cui ero perdutamente innamorato», da lì cominciò l’immersione nel mondo dell’eroina. Entrò a San Patrignano nel 1983, ma già prima aveva fatto dentro e fuori da altre comunità. Arrivò da Muccioli con l’aiuto di Gian Marco Moratti.
«Uno come Muccioli non lo avevo mai incontrato in vita mia...», dice Fabio. E ne ricorda lo sguardo «che sembrava capace di scrutarti dentro»; era «una persona fortemente empatica, capace a volte di prevedere le nostre azioni». «La prima volta che mi vide disse: “Io ti prendo anche oggi ma capisco che non sei ancora pronto”».
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A San Patrignano non si facevano discussioni serali in cui si analizzava la giornata. Si stava insieme si lavorava. «Vincenzo sapeva vedere l’uomo che potevamo diventare... e ci insegnava a relazionarci con gli altri, per capire che ogni nostra azione non è mai fine a se stessa ma ha una ricaduta, un’influenza sul mondo circostante. E che ognuno risponde delle proprie azioni, che non possono essere un beneficio solo per te stesso»
FABIO CANTELLI ANIBALDI
Marco Missiroli per Sette – Corriere della Sera
Noi di Rimini lo evochiamo ancora a voce timida: San Patrignano. Un sibilo che tiene insieme il rispetto, e il tumulto passato, verso la comunità di tossicodipendenti più importante del mondo. Verso il suo fondatore, Vincenzo Muccioli. Verso la cattedrale che era, e che è, lassù nella collina in faccia all’Adriatico.
San Patrignano, Sanpa: sulle bocche dei nonni, delle madri e dei padri, di noi tutti, e per tutti questi decenni. E anche adesso, dopo il clamore del documentario distribuito da Netflix, l’anima di quell’epoca è tornata con un testimone cardine: Fabio Cantelli Anibaldi.
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Cantelli Anibaldi, che nella comunità si ripulì dal 1983 al 1995, è un ponte necessario tra il passato e l’oggi: per la sua storia di sommerso e salvato, per il nitore del suo pensiero nei confronti di quella lotta di vita. Il figlio accolto e ripudiato da San Patrignano, e ancora, e ancora, che fece sua la frase di Friedrich Hölderlin, «noi ci separiamo solo per essere più intimamente uniti. Moriamo per vivere».
Morte e rinascita riversate già allora in un libro straordinario, La quiete sotto la pelle, uscito in libreria nel 1996 e ora ripubblicato da Giunti con una prefazione inedita e un titolo nuovo: Sanpa madre, amorosa e crudele. La madre che «fa e disfa, se vuoi essere altro da lei».
Altro cosa, Cantelli Anibaldi?
«Altro: io, come mi rivelò il Je est un autre di Rimbaud, letto a 17 anni. Quando finii il libro vivevo da più di dieci anni a Sanpa e non accettavo che una persona fosse stata ammazzata, che ci fossero stati due suicidi, che ci fossero altri fronti su cui fare luce. Sembrava che tutto questo stesse per essere derubricato a incidente di percorso. In più stava morendo Vincenzo Muccioli e l’intenzione dei Moratti era quella di affidare la comunità al figlio. Così mi sono detto: non è più un posto per me.
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E siccome ero l’unico del gruppo dirigente a pensarla così, ho capito che questa diversità andava coltivata. È chiaro che mettere in discussione San Patrignano voleva dire togliersi la terra da sotto i piedi. Ma io avevo fame di verità. Anche la mia formazione di filosofo mi ha aiutato: per me la ricerca della verità non era e non è un hobby, era ed è un’etica».
Ricerca di verità che l’aveva già costretto da tempo a dire Muccioli.
«Riguardo a Muccioli va detta una cosa: dopo ogni mia fuga dalla comunità mi ha sempre riaccolto. Anzi, io sono stato uno dei pochi a non aver aspettato un’ora davanti al cancello. Non so cosa lui avesse trovato in me. Ho visto gente aspettare al cancello anche un mese e non essere degnato di uno sguardo. Lui li metteva davanti alla prova, no?».
Il grande padre.
«Che poi è stato il suo limite: aver fatto di Sanpa una sua creatura in tutto e per tutto».
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Una figura a ridosso del mito. Controversa, spaventosa, miracolosa, salvifica e cosa?
«La perdita della coscienza dei limiti. Ho conosciuto due Vincenzo Muccioli e mi piace identificarli con due personaggi letterari dello stesso autore, cioè Melville. All’inizio ho conosciuto il Muccioli-capitano-Achab che aveva la sua ossessione, la sua balena bianca e noi eravamo la sua ciurma. Siamo stati coinvolti in questa caccia alla balena ed è stato un viaggio entusiasmante.
Ci ha portato dentro questa avventura con i suoi modi spicci e bruschi e affettuosi. Poi ha compiuto un errore: ha creduto di aver catturato davvero la balena bianca. E li è finito tutto, è finita l’utopia e lui si è trasformato in quest’altro meraviglioso personaggio di Melville che è Benito Cereno, il capitano che è ostaggio della sua ciurma ma che di fronte all’avvistamento di una nave nemica deve fingere di essere ancora un comandante a pieno regime».
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«Questa è la parabola di Vincenzo Muccioli. Lui si è fatto imprigionare dalla sua opera, dalle sue manie di grandezza e dal consenso che non ha saputo gestire, di cui si è inebriato. Anch’io al posto suo, vedendo questa sfilata di potenti, ministri, giornalisti che lo guardavano come fosse una bestia rara, un taumaturgo, un benefattore, un uomo coraggioso, avrei probabilmente fatto lo stesso errore. E non dimentichiamoci che, in ogni caso, lui fece quello che lo Stato non aveva fatto».
Chi era dunque Vincenzo Muccioli?
«Un grande educatore. Uso un’immagine che mi piacque molto perché quando la trovai dissi: questo è Vincenzo. È l’immagine descritta da un maestro Zen, Taisen Deshimaru, contenuta in un libro che lessi negli ultimi anni a San Patrignano. In un passo scrive che educare è come far volare un aquilone. Se lo lasci andare troppo, rischi di perderne il controllo. Se lo tieni troppo sotto controllo, l’aquilone cade».
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«Ecco, lui sapeva alternare queste due forze per farci apprendere l’equilibrio e l’autonomia, doti che al tossico mancano. Una parola che oggi si usa abbastanza a sproposito ma che gli appartiene è “empatia”: capacità di entrare dentro di noi, di decifrare i nostri stati d’animo. Sapeva qual era il punto fin dove poteva spingersi per suscitare una determinata reazione».
Empatia o manipolazione?
«Il Vincenzo che ho amato, il primo, era empatico».
Achab.
«Achab. Mentre Benito Cereno era inevitabilmente manipolatorio, perché quando gestisci una massa non puoi non esserlo. Diventi un seduttore, un demagogo, uno spacciatore di promesse e illusioni».
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E cosa accadeva quando ti accorgevi di una presunta manipolazione?
«Tentavo un ammutinamento interiore. Accadde soprattutto quando cominciai a lavorare con lui e lo conobbi veramente da vicino, nell’ultimo periodo in cui ero a Sanpa. Ero la persona che occupava una delle tre scrivanie nel suo ufficio. Aveva capito che dovevo essergli vicino per tentare di non espormi ad altre fughe, ad altri tentativi di ritorno alla droga. Sapeva che avevo bisogno di un’intimità dal primo giorno che mi vide».
Glielo presentò direttamente Gian Marco Moratti, che conobbe grazie a Indro Montanelli.
SANPA - LUCI E TENEBRE DI SAN PATRIGNANO
«Con Moratti fu un incontro meraviglioso. Me lo procurò davvero Montanelli, perché mio padre adottivo era il critico cinematografico del Giornale. Andai da Moratti con mia madre che vedeva in San Patrignano l’ultima spiaggia. Ero stato in carcere, avevo già fatto una comunità, gliene avevo fatte passare di cotte e di crude. Insomma, entriamo in questo ufficio in Galleria De Cristoforis dove ha sede la Saras, l’azienda di famiglia petrolifera dei Moratti.
Era uno spazio immenso e io non avevo mai visto un miliardario in carne ed ossa. A un certo punto arrivò Gian Marco, mi disse: “Vieni, diamoci del tu”. Ci sedemmo e notai che alle pareti c’erano quadri pazzeschi, ma non del ricco che volesse ostentare: Andy Warhol, Jackson Pollock, e qui pensai quanto amasse l’arte per questa sua originale
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«Poi Moratti iniziò a parlare: “Non ti racconto di Sanpa perché lo farà Vincenzo Muccioli quando vi incontrerete. Invece dimmi un po’ di te. Cosa fai?”. Risposi: “Bè, sai Gian Marco, io mi faccio”. “Ma i soldi per la roba come te li procuri?”. E già il fatto che lui avesse pronunciato la parola “roba” e non droga o eroina mi fece pensare che in qualche modo mi capisse. Vuotai il sacco: “Gian Marco, io rubo”. “E cosa rubi?”. “Rubo vestiti di boutique”.
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Poi gli spiegai che proprio in Galleria De Cristoforis c’era un negozio che visitavo spesso. E lui: “Ma scusami, la roba costa, devi portarne via tanti di vestiti. E come fai?” Così glielo mostrai: mi alzai e andai a prendere la mia giacchetta leggera che avevo lasciato a mia madre in fondo all’ufficio».
«La presi mentre mamma sgranava gli occhi, rimanendo con quello sguardo allibito per tutto il tempo che illustrai a Moratti la pantomima del ladro: “Allora Gian Marco, il braccio destro lo tengo arcuato sotto la giacchetta ma non troppo, deve essere un incavo. La mano sinistra sfila i vestiti dalle grucce e li piega al volo di modo che si incastrino sotto il braccio coperto dalla giacchetta”. E mia madre con due occhi così. E Gian Marco anche, mi fissa esterrefatto e con un filo di voce dice: “Vedrai che Vincenzo ti aiuterà”».
Perché finanziò Vincenzo? Perché i Moratti diedero, si dice, circa trecento milioni di euro a San Patrignano?
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«Perché Gian Marco era un miliardario atipico. E secondo me aveva un enorme senso di colpa per il fatto di essere troppo ricco. Aveva bisogno di liberarsi del suo denaro in modo giusto. E so che questa è una “tara” di famiglia perché anche suo fratello Massimo e il padre Angelo la pensavano così. Poi c’è anche il piano della fascinazione che Gian Marco e Letizia hanno provato di fronte a Vincenzo: credo dipendesse dal fatto che seppur potessero possedere tutto, non riuscissero comunque a colmare il gap che ricchi e potenti sentono nei riguardi della vita immediata. Il denaro è il mezzo per eccellenza: ti dà l’illusione di avere e potere tutto ma ti allontana dalla vita sorgiva, la vita come esplosione dionisiaca. E Muccioli era impetuosa espressione del dionisiaco».
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Così a vent’anni, entrando a Sanpa, cominciava la sua seconda o terza vita. Prima ne aveva avuta una da bravo studente al Manzoni, e subito dopo una da tossico di eroina.
«Il primo atto di questa metamorfosi, nascosto anche a me stesso, avvenne quando avevo tredici anni. Successe guardando la copertina di un vinile di mia sorella, raffigurante questa figura di maschio ambigua, coloratissima, truccata: era il David Bowie dell’album Aladdin Sane. Fu un’esperienza sconvolgente perché non riuscivo a capire se fosse un uomo o una donna. Dopodiché ho detto: che me ne frega, io voglio diventare così».
Così come?
«Anomalo».
La droga attecchisce qui, nel desiderio di anomalia?
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«Sì, anche perché io nel libro lo racconto. Non avevo nessuna attrazione verso quei rituali con le canne dei miei amici coetanei, non mi sembrava così interessante quel versante lì. Mi dicevo: se devo prendere una droga, scelgo tra quelle pesanti. Questo mi avrebbe reso diverso, anomalo, come mi sentivo».
E da questo pensiero ai fatti?
«Sono stato l’unico tossico, tra le migliaia che ho conosciuto, a cominciare direttamente con l’eroina in vena».
Che anno era?
«Il 2 aprile 1980».
Ricorda il giorno come certi amori.
«Non a caso tutto comincia con una ragazza, Alida, che veniva a prendere il suo fidanzato al Manzoni. Quando la notai mi sembrò di vedere Lauren Bacall, la moglie di Humphrey Bogart. Ti lasciava folgorato. Dopo qualche tempo successe qualcosa di straordinario: mi dissero che era interessata a me. E sa perché si interessò? Era venuta a sapere che avevo dieci in filosofia».
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Straordinario.
«Eccome. Ci siamo visti poco dopo per un appuntamento al Bar Magenta dove lei si fece raccontare un po’ di me. Le svelai che facevo parte di questo movimento Neo-Dada fondato con il mio amico Omar, movimento fondato da noi due soltanto. Fu allora che dal niente mi informò che con il suo fidanzato sarebbero andati nella villa dei genitori sul lago di Lugano, per Pasqua, e che se avessi voluto sarei potuto andare con loro per qualche giorno di relax. E quindi accade che io e Omar ci andammo, a Lugano. Era appunto il 2 aprile».
E come si passa da qualche giorno di relax sul lago a farsi di eroina?
«Andammo in questa villa, e nel tardo pomeriggio dissi a tutti che sarei andato a preparare un tè. Cominciai ad armeggiare con le tazze, allestii il vassoio e tutto, rientrai nel salotto per servire gli altri. E qui vidi Alida che stava chiacchierando con il mio amico Omar, e poco distante il fidanzato indaffarato con della plastica traslucida. Di primo acchito non capii bene cosa fosse quella plastica. Poi avanzai e notai che erano siringhe da insulina, le cosiddette spade. A quel punto il fidanzato alzò la testa e disse: “Ti fai anche tu?”. Io dissi di sì. Il dire di sì di Nietzsche, l’amor fati. Poi Alida e questo fidanzato si giocarono chi di loro avrebbe avuto il privilegio di farmi il primo buco. Perché la verità è che io avevo anche un po’ paura degli aghi e volevo qualcuno che mi aiutasse. Vinse Alida, o forse il suo fidanzato le permise di vincere perché capiva che ci teneva molto. Così mi fece la prima iniezione di eroina».
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Un buco d’amore.
«Che ebbe un seguito pazzesco, a cui il mio amico Omar non partecipò perché gli venne da vomitare e dormì per conto suo. Invece noi tre finimmo in questo lettone: tutti e tre insieme, perché Alida e il fidanzato erano una coppia bisessuale. E questo aumentava in me il loro fascino: Bowie e droga vera».
L’anomalo.
«La cosa fondamentale fu l’effetto di quella prima dose di eroina: decidevo cosa sognare, chiudevo gli occhi e appena mi addormentavo quella stessa materia onirica si manifestava. E ancora. Non mi è mai più successo in modo così nitido. Vivevo i sogni che volevo sognare. Accanto a me c’era Alida, ma era come se non me ne importasse più, anche quando sentii le sue mani addosso che mi accarezzavano, che mi frugavano. Avevo già trovato il massimo della vita, e di lei, per la quale veramente avevo spasimato per mesi, non mi interessava nulla. Quella volta capi la potenza dell’eroina».
E tornando da quella giornata decise di riprovare?
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«Sì, volevo riprovare. Mi misi al seguito di un amico con cui andai a prendere la droga al parco Sempione e scoprii che non scendeva dal cielo come un nettare degli Dei allo steso modo di Lugano. C’erano gli spacciatori, bisognava avvicinarli, trattare».
«Fu buco molto avventuroso perché arrivò la polizia e tutti gli spacciatori si dileguarono lasciandoci a secco. Rimasi a bocca asciutta per un po’, finché mi offrirono tre Roipnol per ingannare l’attesa. Li presi, poi gli spacciatori tornarono e acquistai la mia dose. Mi bucai. E dopo apparve Papa Giovanni».
Pure il Papa.
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«Dopo esserci drogati passammo da Parco Sempione a una sala prove in viale Washington dove volevamo fare musica rock, New Wave, con il nostro gruppo che si chiamava Nietzsche Dada Group. Mi misi ad accordare la chitarra, una Fender Stratocaster, ma mi addormentai sullo sgabello e mentre dormivo sognai Papa Giovanni in una posa da benedizione. Era un’effige che avevo visto in casa di mia nonna, mi sembra sul calendario di Frate Indovino.
Insomma, l’effigie si incarnò nel sogno e quando aprii gli occhi rimase nella sala prove che andava avanti e indietro a benedire, con le movenze meccaniche degli orsetti dei tirassegni del Luna park. Così sono scattato in piedi e ho detto: fermi tutti, voi non sapete chi c’è qua!».
David Bowie, una ragazza chiamata Alida, il Vaticano. Che battesimo.
«Il vero rito di passaggio fu però quell’estate. Convinsi i miei ad andarsene al mare e rimasi da solo a Milano a prendermi cura della nostra gatta. Comprai la mia prima dose in autonomia e mi bucai da solo. Ebbi spavento della mia felicità. Non è mai facile essere felici, soprattutto quando lo diventi per un buco in vena»
Eppure adesso dà l’impressione di esserlo: un uomo felice. O quantomeno pacificato.
«Sì, perché non ho più un io».
E senza un io cos’è, Cantelli Anibaldi?
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«Sono un canale. Attraverso cui la vita è passata e continua a passare senza incontrare troppe resistenze. Il mio filtro ha avuto maglie molto larghe e il rapporto ravvicinato con l’esistenza mi ha reso un ibrido tra Zelig e Gregor Samsa, tra la farsa e la tragedia. Vivo tra questi due poli. E adesso sento di avere una capacità di accogliere, maturata anche attraverso le batoste. Accolgo, accetto. Non interferisco. E come mi ha consigliato Kafka: “Nella lotta tra te e la vita, vedi di assecondare la vita”».
Quanto Muccioli e San Patrignano hanno concorso a questa consapevolezza?
«Molto. Nel mezzo ci sono state tante vite, è vero. Tra cui quella del malato inguaribile, con la scoperta della sieropositività. E in tutto questo ho intuito, sempre cammin facendo, quello che vorrei trasmettere anche ai ragazzi: c’è un altro tipo di felicità esistente, ed è la ricerca della felicità».
Lo disse Borges.
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«Borges, esatto. L’etnografo di Elogio dell’ombra lo spiega benissimo. La felicità non è l’approdo, è il cammino. Il nucleo non è la fiammata, come credevo da ragazzo, ma custodire la fiammella. La felicità è la custodia quotidiana della fiammella. Nonostante un tempo passato e uno futuro».
Nel libro scrive che il tempo della sua memoria rispetto a San Patrignano sfugge al normale concetto di durata. È verticale, incomberà sempre. Con le sue salvezze, certo, ma anche con i suoi demoni.
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«Quei demoni li gestisco non avendo paura delle emozioni che provo quando ripenso a Sanpa. Emozioni vive, intense come allora. Non ne ho paura, le vivo e dico: è un’esperienza che mi ha dato qualcosa di più, come negli amori che non scadono in routine
Ancora quella parola: amore.
(Cantelli Anibaldi rimane in silenzio). «È al di là delle mie capacità. Io sono uno troppo assediato dai miei fantasmi per amare come l’altro spesso si merita di essere amato. Ho avuto, ciononostante, la fortuna di essere molto amato. Anche a Sanpa».
È mai tornato a trovarli?
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«Vorrei. Dopo che lasciai la comunità nel 1995, l’unica volta che tornai in visita fu quando il mio amico Antonio — Pietro, nel libro — insistette a tal punto con la moglie di Muccioli che la signora Antonietta me lo concesse. Ci andai un fine settimana di primavera, mi pare fosse il 2000 o il 2001, e trovai una realtà completamente cambiata, non solo esteriormente. E nonostante questa diversità, mentre ero lì, ricordo un sentimento di gratitudine. Quasi».
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Gratitudine rivolta verso qualcuno in particolare?
«Muccioli mi ha salvato, certo, nel senso che mi ha permesso di sopravvivere. Dopodiché la sopravvivenza non è ancora vita. All’esperienza di San Patrignano devo comunque l’avere imparato a “vivere ad altezza di morte”, come esortava Georges Bataille, autore amatissimo in gioventù. Il tossico rischia la morte ma non vive alla sua altezza, perché la morte è l’ultimo dei suoi pensieri. Mi faceva ridere chi parlava di “lento suicidio del tossicodipendente”. Parole presuntuose e ignoranti. Per il tossico la droga è la vita».
Come pensa a Vincenzo Muccioli, adesso?
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«Uno dei grandi incontri della mia vita assieme a quello con don Luigi Ciotti e con il filosofo Carlo Sini, per limitarmi a quelli avvenuti quand’ero un ragazzo o un uomo ancora giovane. Nel bene e nel male è sempre dentro di me. Io so ciò che gli devo, lui lo sa che io lo so, e tra di noi è rimasto una cosa molto intima che è soltanto di noi due».
«Ho ancora le sette pagine che mi scrisse dopo che scappai da San Patrignano con una ragazza di cui ero innamoratissimo. Eravamo all’hotel Cardellini a Rimini dove mi fece recapitare questa lettera. Ancora la conservo perché in quelle parole c’è tutto l’amore che aveva per me. Ogni tanto la rileggo».
E quando la rilegge è la balena bianca che torna o è l’uscita dal mare in tempesta?
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«La balena bianca che torna. Io non sono mai uscito dal mare in tempesta, il mare in tempesta è la mia condizione, forse la mia vocazione».
fabio anibaldi all'epoca della comunita'
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