Filippo Facci per Libero Quotidiano
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Parliamo del libro postumo di Daniele Nardi - un alpinista appassionato, di ordinaria rilevanza tecnica – che nel febbraio scorso morì di una morte che apparve estremamente cercata, ossia passando dallo sconsigliatissimo sperone Mummery del Nanga Parbat (Pakistan, 8126 metri) da cui non fecero ritorno per sfinitezza e per via del brutto tempo: questo lui e Tom Ballard, un talento giovanissimo che fu irresponsabilmente trascinato nell'avventura.
Se ne parlò molto nel febbraio scorso, quando Nardi e Ballard morirono sulla montagna (i corpi probabilmente non saranno mai recuperati) e quando l’odissea dei soccorsi mortificò la buona volontà di tanti alpinisti che cercarono di dare una mano. Tra questi – segnatevi i nomi - c'erano lo spagnolo Alex Txicon e il pakistano Ali Sadpara. Simone Moro, invece, si offrì di recuperare i corpi con l'aiuto di un elicottero, ma le famiglie rifiutarono.
Dico subito che il libro nella sua interezza, levigato dall'editor e terminato postumo dal Alessandra Carati, mi interessa solo nella parte che va da pagina 158 a 201, ossia dove racconta della vicenda che contrappose Nardi all'alpinista Simone Moro: il quale, di fatto, nel 2016, favorì l'espulsione di Daniele Nardi dal gruppo a cui Moro si era aggregato con l'intento di raggiungere la cima del Nanga Parbat in prima invernale, come poi avvenne in compagnia dei citati Alex Txicon e Ali Sadpara.
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Per il resto, umanamente e alpinisticamente parlando, il personaggio Daniele Nardi non interessa più di tanto, né credo che si presti all'eterno dibattito sulla «conquista dell’inutile»: sulle ragioni, cioè, per cui una persona sana di mente debba andarsi a cercare la morte per una soddisfazione inafferrabile. Nardi non meritava certo di morire, ma dire che «se l'è cercata», nel suo caso, ha quasi senso. Sognava l'impresa impossibile. Ma lo consideravo, anche da vivo, un enigma risolto: nel libro ritrovo frasi come «la mia forza mentale nasce da una mancanza», «cerco un'occasione per dimostrare il mio valore e segnare la storia dell'alpinismo», più altre conferme di una mentalità disadattata e alla perenne ricerca di riscatto, con la tendenza a enfatizzare il dramma eroico dell’avventura.
I CORPI DI TOM BALLARD E DANIELE NARDI
Cosa ardua per un originario di Sezze (Latina) a fronte di un mondo alpinistico iper-conservatore e diffidente, dove ancora si fronteggiano «dolomitisti» e «occidentalisti», e dove lui, testardo, si affannava a cercare sponsor nelle zone pontine dove l'alpinismo non sapevano neppure che cosa fosse. Resta che alcune persone, per vivere, hanno drammaticamente bisogno di sentirsi vive: Nardi era una di queste. Nardi, cioè, era un alpinista.
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Ora tocca andare sul personale. Nel maggio 2016, dopo che Simone Moro aveva conquistato il Nanga Parbat in invernale, ed era finito sui giornali di tutto il mondo, approfittai del mio rapporto personale con lui e gli chiesi un'intervista. Ci conoscevamo da tempo e c'era una certa intesa: l'avevo già intervistato per Libero e per un inserto di Panorama, e non si era certo lamentato, anzi. Avevo anche combinato una cena - io, lui e i vertici di Sky - per studiare un diretta televisiva dell'eventuale conquista del Nanga Parbat. L'intervista si fece vicino a casa sua, sopra Ponteranica, vicino a Bergamo, dove parcheggiava il piccolo elicottero con cui si spostava. Tutto all'apparenza andò bene. Mai avrei immaginato che l'intervista avrebbe interrotto la nostra amicizia, peraltro per una mia decisione che lo lasciò di sale.
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I CORPI DI TOM BALLARD E DANIELE NARDI
Colpa di un preciso argomento: Daniele Nardi. Quando l'intervista fu pubblicata – 30 aprile 2016 – la reazione di Moro fu tiepida. Poi divenne gelida. Di indole apparentemente diretta ma non sempre sincera, probabilmente fu mal consigliato dal tuo team di comunicatori guidato da Marianna Zanatta. A un certo punto, Moro scrisse su Facebook che non gli erano piaciuti «il tono, il titolo e i virgolettati» dell'intervista, e, pur premurandosi di considerarmi suo amico, aggiunse varie considerazioni su certo malcostume giornalistico di bassa quota.
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Risultato: tra i suoi fans e commentatori, qua e là, fioccarono appellativi tipo «pennivendolo» (io) e il collega della Gazzetta dello Sport Sandro Filippini (troppo anziano per chiamarlo fisicamente a risponderne) si spinse a definirla «pseudo intervista» e mi associò a una «cagata». Peccato che l'intervista sia stata interamente registrata (circa un'ora e mezza) con registratore ben visibile: infatti Moro non potè smentire nulla, salvo lamentarsi che avevo scritto «troppo».
In effetti mi aveva chiesto di non scrivere certe cose, e io infatti - benché le avessi registrate - non le avevo scritte. Era già accaduto nelle altre interviste. Aggiungo che qualsiasi giornalista «normale», e non amico di Moro, probabilmente avrebbe viceversa pubblicato tutto. Ma che cosa scrissi? Che, parole di Moro, era stato Txicon a proporre a Moro di aggregarsi al gruppo dove c'era Nardi. Scrissi che Moro si ritrovò buona parte della via già assicurata con corde fisse (una faticaccia che corrisponde a buona parte del lavoro) e scrissi che Moro, per compensare, offrì dei soldi. Scrissi che Nardi, da quanto Txicon disse a Moro, di queste corde aveva fissato al massimo un 5 per cento, e che Txicon disse a Moro che Nardi era un po' troppo impegnato con Facebook. Scrissi che – parole di Moro – Nardi «tenne delle condotte che lasciarono tutti basiti… Dissi a Nardi che non volevo scalare con lui». Perché non si fidava. Così scrissi. Alla fine, morale, Txicon e Sadpara decisero di estromettere Nardi: così lui tornò a casa, i tre invece arrivarono in vetta. E contava questo. Conta solo questo: non le polemicucce o le interviste.
FILIPPO FACCI
Poi ci furono le cose che non scrissi: e che oggi, tanto, non hanno più importanza. Secondo me, almeno. Per esempio non scrissi che Nardi, a tradimento, si era messo a registrare tutte le conversazioni con Moro, che Nardi si messaggiava soprattutto con Agostino Da Polenza (ex alpinista, grande manovratore di cose alpinistiche, tenutario del sito montagna.tv) e non scrissi altre cose che non riporto, ora, perché stiamo pur sempre parlando di un morto.
Io comunque credetti a tuttò ciò che Moro mi disse. E ci credo ancora. Così come credo a quello che gli ripetei in un carteggio finale, prima di interrompere i rapporti: le polemiche e le cazzate, tanto, non contano nulla, perché, come dicono nei film, il campione sei tu, hai conquistato il Nanga, punto. A me rimaneva un'amicizia infranta e un'intervista in cui perlomeno, per la prima volta, si capiva che accidenti fosse successo su quella montagna: forse è per questo che l'intervista è ancora cliccatissima su internet.
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A pensarci bene, c'è un'altra cosa che non scrissi, e dopo qualche anno si può raccontare anche questa. In rete, se voi cliccate «Simone Moro», vi esce la definizione «alpinista, scrittore e aviatore italiano». Perché aviatore? Perché è pilota di elicottero, e si è specializzato in soccorsi alpini sulle montagne del Nepal. Aveva aperto un paio di scuole per elicotteristi e, nel periodo dell'intervista, stava cercando finanziamenti per un certo suo progetto. Non sarebbe stato bello, dunque, che la stampa apprendesse quanto accadde subito dopo l'intervista. Simone, cioè, mi invitò a fare un giro in elicottero, e io ne fui entusiasta. Sorvolammo i dintorni e la zona del Monte Alben, lungo il crinale che divide la valle Brembana dalla Valle Seriana.
Simone Moro
Al ritorno, però, a poca distanza da terra, e mentre lui faceva delle manovre dimostrative, l'elicottero cadde. Si cappottò. Si distrusse per buona parte. Nessuno si fece male, o non più di tanto. Non si capiva che cos'era successo, forse un colpo di vento. Simone ebbe il riflesso d'incolpare me, ma forse fu nervosismo, del resto a smentire c'erano parecchi testimoni. Ho ancora la foto della carcassa dell'elicottero. Ora, dopo tutti questi anni, vorrei chiedere a Simone Moro – che mi aveva accusato d'aver scritto «troppo» - quale giornalista al mondo, mentre un certo alpinista trionfava su tutti i giornali del mondo, e batteva record di voli in quota e cercava fondi per i suoi elicotteri, non si sarebbe precipitato a raccontare l'esperienza: tipo «ho intervistato l'alpinista del momento e sono caduto in elicottero proprio con lui. Invece non scrissi nulla. Non lo feci neanche nei giorni in cui Moro ebbe il fegato di criticare la mia intervista, perché avevo «scritto troppo»: lì capii che era un uomo davvero coraggioso.
LALPINISTA SIMONE MORO
Per il resto, nel suo libro, Daniele Nardi parla discretamente male di Simone Moro: ma ci sta. Scrive cose. Nardi, che tutto sommato sono compatibili con quelle raccontate da Moro. A parte due. Una è che, nel gruppo di Daniele Nardi, nessuno chiese a Simone Moro di aggregarsi: fu Simone Moro a chiedere di potersi aggregare, pagando per le corde già fissate. In ogni caso, alla fine Nardi fu estromesso.
La seconda cosa è che Moro, secondo Nardi, diffuse false voci di un imminente maltempo per far desistere la concorrenza che era in vantaggio su di lui in direzione della vetta. Vero, falso, chissà. Saranno cazzate, per voi, e probabilmente lo sono, ma la comunità alpinistica di queste cose potrebbe anche discutere per anni. Ma lo farebbe quaggiù. Perché lassù, tanto, valgono altre regole, altre leggi, è un altro mondo in cui vivere e morire. A Daniele Nardi non si perdona di essere morto. A Simone Moro non si perdona di essere rimasto vivo. Noi giudichiamo, e poi voltiamo pagina.
LALPINISTA SIMONE MORO
LALPINISTA SIMONE MORO
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