Francesco Malfetano per “il Messaggero”
coronavirus microscopio
L'Italia ha un grosso problema con il sequenziamento. E non solo perché a un anno dall'annuncio della sua istituzione da parte del ministero della Salute il Consorzio Italiano per la genotipizzazione e fenotipizzazione di Sars-CoV-2 è ancora fermo al palo (non sfruttando quindi la capacità dei laboratori della Penisola) ma anche perché sembriamo rifiutare le soluzioni più semplici già adottate da Paesi che si sono dimostrati molto più abili di noi, come Regno Unito e Danimarca.
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Ad esempio il ricorso ad un'analisi dei tamponi (uguali a molti di quelli già utilizzati oggi in Italia) che è in grado di individuare senza ulteriori complicazioni la presenza della mutazione.
IL CONSORZIO
Delta vs Omicron
Andiamo con ordine. Mentre Omicron sta rapidamente diventando prevalente in Europa infatti, secondo l'ultimo report dell'Istituto superiore di sanità (aggiornato al 6 dicembre) nella Penisola rappresenterebbe solo lo 0,19% casi.
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Un dato che è stato tra le motivazioni con cui il premier Mario Draghi ha giustificato l'introduzione dell'obbligo di tampone all'ingresso per i viaggiatori provenienti dai Paesi Ue: «Da noi i contagi con Omicron sono meno dello 0,2%, in altri Paesi la variante è molto diffusa, ad esempio in Danimarca, in Regno Unito diffusissima».
Un dato inattaccabile se non fosse che, appunto, sia la Danimarca che il Regno Unito cercano le mutazioni molto più di noi. Negli ultimi 30 giorni hanno infatti sequenziato e comunicato alla piattaforma per la condivisione dei dati genomici (Gisaid) rispettivamente il 24,7% e il 12,5% dei tamponi totali.
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L'Italia? Poco più dell'1%. Molto meno del 5% raccomandato dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc). È improbabile quindi che quello 0,2% di casi Omicron italiani sia una stima reale. Basti pensare che ieri, una città come Madrid, ha fatto sapere di avere già registrato una prevalenza al 60%.
Le motivazioni di questo ritardo, secondo diversi esperti che lavorano nei laboratori che oggi effettuano questo monitoraggio per conto dell'Iss, sono da ricercarsi in primis proprio in queste strutture. Non perché non facciano abbastanza. Ma perché sono le stesse impegnate nel fornire un responso ai tanti tamponi effettuati dalle Asl. «Bisogna decidere cosa privilegiare - spiegano - Oggi c'è l'esigenza di dare risposte rapide ai test per far ottenere il Green pass, è una necessità diagnostica.
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Il sequenziamento invece ha solo rilievo epidemiologico». Tant' è che, a ieri, le sequenze Omicron caricate sulla piattaforma italiana ICoGen erano appena 55. Esattamente la ragione per cui, a gennaio 2020, si era pensato di creare il Consorzio (come già fatto in Regno Unito) per mettere in campo una rete alternativa già impegnata con la sanità regionale. «Invece noi non abbiamo una rete ben delineata di laboratori che facciano capo a una singola istituzione», spiega Massimo Ciccozzi, responsabile dell'unità di Statistica medica ed Epidemiologia della facoltà di Medicina e Chirurgia del Campus Bio-Medico di Roma. Il perché, raccontano invece i ricercatori dei laboratori esclusi, sarebbe da ricondurre al timore di un eventuale depotenziamento delle strutture regionali esistenti. Un'ipotesi che le avrebbe spinte a metterle di traverso.
I TEST
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Inoltre c'è il nodo tamponi. Per ottenere una fotografia fedele e puntuale della situazione, Regno Unito e Danimarca sfruttano una tecnica chiamata Sgtf. Cioè una capacità implicita di alcuni dei kit molecolari utilizzati dai laboratori di analisi per trovare i positivi. In pratica, già abitualmente, questi tamponi individuano diversi dei geni che costituiscono la struttura del virus (c'è il gene S, il gene Rdrp, il gene E ecc).
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Nel caso di Omicron però, il gene S è mutato e quindi non viene rilevato. Per cui è assumibile - con una affidabilità lievemente inferiore rispetto al sequenziamento - che ogni tampone analizzato che non lo presenta è da attribuirsi ad Omicron. Il tutto, va specificato, senza necessità di aumentare l'impegno dei laboratori (l'analisi è la stessa), potendo comunicare i risultati ogni 24 ore e non dovendo far fronte a spese aggiuntive per i kit in questione perché sono già largamente utilizzati (in Italia ad esempio quelli Elitech o Seegene). Proprio come fatto da danesi e inglesi.
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