Giuseppe Videtti per la Repubblica
MAPPLETHORPE
Fotografie di Robert Mapplethorpe
Non lasciate che mi dimentichino, disse al fratello Edward poco prima di morire di Aids. Era il 1989, Robert Mapplethorpe aveva 42 anni, il Whitney Museum gli aveva appena dedicato una mostra. Era finalmente arrivato al top, la fotografia non era più la bastarda dell’arte. Dopo anni di aspettative tradite era entrato nelle grazie dell’Upper East Side, ma aveva davanti uno spettro ben più spaventoso dei demoni che l’avevano posseduto nelle notti newyorkesi a base di droghe e sesso sadomaso.
Stava per essere ucciso da un retrovirus che gli scienziati definivano banale ma misteriosamente letale. Le sue fotografie, bollate in una interrogazione al Senato come «oscenità travestite da arte», erano in mostra negli spazi di Pollock e Mondrian. Per sostenere le loro accuse, i detrattori si concentravano su un autoritratto dell’artista, carponi, con un frustino sadomaso infilato nell’ano — un diavolo con la coda, il volto rivolto verso la camera in una sorta di espressione compiaciuta e morbosa.
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Fu la giornalista Patricia Morrisroe la prima ad aver accesso ai segreti della vita di Mapplethorpe, pubblicati nel 1995 in una esplicita biografia ( Mapplethorpe, Random House) che è diventato il canovaccio di un documentario diretto da Fenton Bailey e Randy Barbato (nelle sale The Space il 24 ottobre), che hanno avuto accesso alle migliaia di immagini acquisite dal Getty Museum nel 2011 per 12 milioni di dollari.
«Entrai nel suo appartamento mentre dormiva, fui immediatamente sedotta dai suoi riccioli, dai lineamenti — a magic kind of person» , confessa Patti Smith, che sulla fratellanza con Mapplethorpe in vari pidocchiosi loft di Manhattan, ancor prima del leggendario soggiorno al Chelsea Hotel, ha scritto l’avvincente Just kids.
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Divise con Mapplethorpe l’ossessione di trovare un nuovo approccio all’arte: «Supportavamo la nostra magia reciproca» , racconta la poetessa punk che Robert immortalò sulla copertina di Horses. Emanavano entrambi una sessualità androgina; lei lo amava, lui pensava di poterla amare, ma di notte si rifugiava nei paradisi degli angeli caduti.
Non le parlò mai della sua omosessualità, era ancora tabù, tanto meno delle scappatelle nei peep show della 42esima, all’epoca la strada del porno, e delle notti al Mineshaft, il locale del West Village dove le parole d’ordine erano «bondage, discipline, dominance, submission» .
Le intenzioni erano chiare fin dalle prime polaroid: raccontare per immagini il mondo che anni indietro lo scrittore gay John Rechy aveva descritto in Città di notte. Nella New York buia, sporca, pericolosa, ingovernabile e flagellata da una nuova epidemia, così ben descritta da Edmund White in La sinfonia dell’addio, Mapplethorpe non faceva fatica a reclutare i soggetti delle polaroid e degli scatti in studio. Era attratto dal sesso scatologico, dai piercing, dai corpi scultorei e dai falli poderosi e perfetti.
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Lo intrigavano certi tagli di luce sulla pelle bianchissima o nerissima, sugli organi sessuali straziati dal bondage, sui volti di modelli sfiniti dalle routine del Mineshaft. Fu solo dopo la relazione col facoltoso collezionista d’arte Sam Wagstaff (morto di Aids nel 1987) che divi come Schwarzenegger, Isabella Rossellini e Donald Sutherland si convinsero a entrare nell’antro di Satana.
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«Era guidato da un’ambizione sfrenata, mi ripeteva sempre: la vita è usare la gente ed essere usato dalla gente» , racconta il fratello minore Edward, che negli ultimi anni era diventato suo assistente. Andò su tutte le furie quando Edward gli confessò di voler continuare in proprio. «Fui costretto a cambiare cognome in Maxey e a emigrare in California» , dice. Si sarebbero rivisti solo quando Robert aveva le ore contate, a quel macabro party d’addio in cui gli sussurrò: «Tienimi in vita» .
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