Maria Grazia Cutuli per “Epoca” (ottobre 1996)
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"Che ci fa una donna qui? Come vi è saltato in mente di portarla?". Lo "studente coranico", il Taleb che vigila al primo check point fuori Kabul, turbante bianco e bazooka in mano, lancia uno sguardo minaccioso all' interno del taxi. Me ne sto rannicchiata dentro una tunica, con la testa coperta da un velo, pentita di non aver indossato la "burqa", il mantello integrale, prescritto dalla legge islamica. La sentinella ripete: "Con lei non passate". Dieci minuti di litigio. Poi, finalmente, il via libera.
E' il giugno 1995. Sono arrivata nella capitale dell' Afghanistan, per tentare di raggiungere i Talebani, gli "studenti" reclutati dalle scuole coraniche, che da aprile tengono sotto tiro la periferia della città. L' assedio (destinato a finire nella notte tra il 26 e il 27 settembre 1996, con centinaia di morti e la caduta di Kabul, vedi riquadro a pagina 81) è solo agli inizi.
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Ma la prima linea, che corre tra colline aride e postazioni di artiglieria, segna già la divisione tra due mondi. Dietro di noi, l' Islam "illuminato" delle forze governative fedeli al presidente Burhanuddin Rabbani. Davanti, i territori dove gli "studenti coranici" hanno dato ampia prova della lora intransigenza. Arriva voce di donne picchiate a sangue per aver mostrato il volto, di uomini bastonati per aver giocato a scacchi, guardato la televisione, ascoltato la radio; si rincorrono notizie di lapidazioni, impiccagioni, di mani e piedi mozzati...
Non è la prima volta che vengo a contatto con i Talebani. Avevo parlato con un loro portavoce a Peshawar, in Pakistan. Una frase scappata di bocca a un funzionario dell' Onu ("sì, ci risulta che qui in città gli "studenti" abbiano un ufficio mobile, segreto") mi aveva messa sulle loro tracce. Li avevo trovati grazie al personale del Consolato americano, una sorta di filiale della Cia che a Peshawar, leggendaria capitale del terrorismo internazionale, retrovia dei mujaheddin durante l' invasione sovietica dell' Afghanistan, funziona a meraviglia. "Volete incontrarli?", aveva detto un diplomatico, mentre scribacchiava su un biglietto.
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"Fate questo numero di cellulare". Normale che gli Stati Uniti, sospettati di essere tra gli sponsor degli "studenti islamici", siano in contatto con loro. Ma, a giugno dell' anno scorso, sembra invece il Pakistan lo Stato interessato a mandare in avanscoperta le milizie coraniche. Soprattutto per liberare le grandi vie commerciali afghane dal controllo delle altre fazioni.
Una prima telefonata. Un altro numero, poi un altro ancora. Alla quarta o quinta chiamata, la risposta: "Tra mezz' ora". E subito lo "spelling" di una strada alla periferia di Peshawar. L' "ufficio mobile" era all' interno di un palazzo formicaio, dentro una stanzetta dalla moquette logora e le pareti in finto legno.
Ad accogliermi, Muhammad Tariq Khattak, un signore calvo, barbuto, dall' aria distinta, e il suo interprete: "Io sono solo un portavoce", aveva detto. "I comandanti si trovano a Kandahar, quartier generale delle nostre forze in Afghanistan".
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Khattak aveva spiegato l' origine della "guerra santa": "Alcuni dei Talebani sono soldati che hanno combattuto contro i russi. Altri sono "mullah" (cioè preti islamici) che hanno fondato le "madrasse", le scuole coraniche. Abbiamo un esercito di 30 mila uomini, jet, elicotteri, armi pesanti". Anche se, aveva aggiunto, "siamo riusciti a conquistare due terzi dell' Afghanistan senza sparare un colpo".
Questo era successo grazie all' appoggio delle popolazioni rurali del Sud che sono della loro stessa etnia, pashtun. "Che cosa vogliamo fare? Sconfiggere il governo di Kabul che sta ingannando il popolo afghano e liberare il Paese dal traffico di droga".
Pie intenzioni: peccato che gli "studenti", se da una parte proibiscono il consumo di stupefacenti, dall' altra gestiscono le più vaste coltivazioni d' oppio dell' Asia centrale.
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Sul fronte di guerra il comando dei Talebani si trova a una cinquantina di chilometri da Kabul, a Maidan Shar, un villaggio semideserto e polveroso. E' ospitato dentro una costruzione con un portale ad arco, semidiroccata, che si erge gialla e piena di tracce di proiettili in mezzo a una spianata. I soldati di campagna non si perdono in convenevoli. Nemmeno un saluto. Con me ci sono il tassista, l' interprete e un fotografo italiano. Ci portano immediatamente in una stanza, ingombra di giacigli, e ci chiudono dentro, mentre una sentinella ci tiene d' occhio dai vetri rotti della finestra.
Il comandante, Mohammed Rabbani (oggi a capo del consiglio di sei "mullah" che governa Kabul), è assente. Ma un suo vice, Hafiz Neda Mohammed, un giovane dalla barba rada, vestito di bianco, accetta di rilasciare un' intervista all' interprete afghano (con le mie domande), mentre io resto chiusa nell' altra stanza: "Grazie a Dio abbiamo la "sharia" che non ci autorizza a parlare con le donne", sbuffa. "Mi fa infuriare il fatto che da Kabul, dove dovrebbe esserci un governo islamico, ci mandino una femmina".
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L' interprete controbatte: "Si tratta di una giornalista...". Ma il "mullah" fa una smorfia di disgusto: "E' forse mia sorella? La "sharia" dice che un uomo può rivolgere la parola solo alle parenti strette". E il rispetto dei diritti umani? "Esistono solo i diritti sanciti dalla "sharia". Le donne sono libere di parlare con i mariti, di studiare in scuole separate, di andare in ospedali separati, non certo di farsi vedere in giro nei bazar e negli uffici".
Anche quando parla di restaurare gli "atti islamici" la musica non cambia. In altre parole: "L ordine sancito dal Corano e dall' Hidith, la legge di Maometto, come è stata applicata dai quattro califfi durante il loro regno, alla morte del profeta. Un governo come quello dell' Arabia Saudita". Poi si corregge: "Volevo dire, come quello che abbiamo instaurato nei territori controllati da noi. C' era la guerra prima. Banditi e fazioni taglieggiavano e rapinavano tutti. Noi abbiamo portato ordine e pace". Avete proibito il gioco degli scacchi, il calcio, la tivù, la radio, dice l' interprete. "Perdite di tempo", urla il vicecomandante, che è un "mullah", cresciuto a Karachi in Pakistan. "Il nostro dovere è pregare, studiare, combattere".
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Una delle sentinelle entra nella nostra stanza. E' un soldato sui 18 anni, dalle guance tonde e lo sguardo accigliato. Originario di Kandahar, racconta al tassista (ignorandomi) di essersi trovato a Kabul nel 1992, durante la caduta di Najibullah.
"Che cosa non hanno visto i miei occhi! I mujaheddin si scannavano come belve. No, non potevo vivere tra gente che tradisce l' Islam così". Il giovane guerriero si è rifugiato a Quetta, in Pakistan. Lì ha frequentato una delle tante "scuole coraniche", istituzioni di stampo medievale, finanziate dalle associazioni integraliste, ma anche da potenze come l' Arabia Saudita, dove gli allievi si indottrinano ai rigori dell' Islam e si addestrano all' uso delle armi. "Quando i Talebani hanno cominciato la marcia verso Kandahar, sono saltato su una jeep, ho preso il kalashnikov e sono partito per la guerra". Non fa in tempo a raccontare altro. Il vicecomandante ci manda via. Si comincia a combattere.
Sulla strada per Kabul, arrivano un paio di missili. Siamo nel pieno della "guerra santa", anche se nella capitale, in questo giugno 1995, il pericolo dei Talebani è ancora sottovalutato. La gente li liquida come omosessuali ("Taleb" è diventato sinonimo di "frocio"), riferendosi alla promiscuità che lega i capi ai giovani soldati e alla loro avversione per le donne.
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E lo stesso comandante Massud, il "leone del Panshir", eroe della resistenza contro i sovietici, oggi capo delle forze militari del presidente Rabbani, mi dirà qualche giorno dopo: "La loro è una forza morale, non militare. Hanno conquistato le regioni del Sud con la "sharia", ma non possono prendere Kabul. Qui la gente non tollererebbe mai il taglio della mano o del piede, la lapidazione per le donne...". Si sbaglia Massud. La cronaca di oggi, il cadavere di Najibullah che penzola sulla piazza principale della capitale, il terrore per le strade, la gente bastonata, le donne recluse in casa, ha dimostrato che i Talebani sanno fare di peggio.
talebani 2 talebani con mascherina a armi americane COMBATTENTI TALEBANI SU UN VEICOLO MILITARE A KABUL Talebani MARIA GRAZIA CUTULI