Franco Cordelli per La Lettura – il Corriere della Sera
favino
Quattordici anni fa, in un piccolo teatro romano, in piena piazza San Giovanni, l' allora conosciuto ma non celebre Pierfrancesco Favino osò mettere in scena un monologo che rasenta l' impossibile, La notte poco prima della foresta , opera prima del 1977 di Bernard-Marie Koltès. Andai a vederlo per Koltès, non per Favino che, appunto, non conoscevo, conoscevo poco. Koltès lo avevo letto, era bellissimo. Ma ascoltato e visto divenne un' altra cosa: Koltès sempre mi piaceva, Favino mi fulminò. Non l' ho mai dimenticato.
FRANCO CORDELLI
A maggior ragione è singolare incontrarlo oggi in un teatro grande, un vero teatro, l' Ambra Jovinelli di Roma: e incontrarlo alla soglia di un' avventura nuova, Sanremo, il suo palco. Come conciliare due realtà così distanti l' una dall' altra?
Ma le due realtà tra loro distanti non sono - essere su un tipo di palcoscenico e su un altro tipo, opposto, di palcoscenico. A questo siamo abituati, è la realtà della nostra esperienza non già teatrale ma culturale: l' ubiquità, la mescolanza dei generi, l' abolizione dei contrari: l' alto e il basso, la sinistra e la destra, il bianco e il nero.
favino
La differenza, in questo caso, permane; è radicale; la si tocca con mano leggendo e ascoltando il testo di Koltès, proprio quel testo: una delle vette espressive del tardo Novecento: mai, per citare un esempio vicino, Pasolini arrivò a un simile vertice di lucidità, di disperazione, di abbandono. E, nello stesso tempo, straordinario è che un attore normale, un attore radicato in un cinema e in una televisione come i nostri, e giunto al suo livello di celebrità, faccia un passo di lato e nello stesso tempo un passo indietro, e torni dove è più difficile tornare.
Aggiungo: Favino ci è tornato senza aver perso energia, senza per caso dare l' impressione di aver consumato il suo talento. Al contrario, oggi è più semplice, più immediato, o diretto - verso un pubblico al quale si accosta anche fisicamente scendendo due o tre volte giù dal palco, quel pubblico che potrebbe essere persino il suo interlocutore, colui al quale l' illuminato protagonista di Koltès si rivolge.
baglioni favino hunziker
Nello stesso tempo Favino è più ambiguo, più sottile; nel suo pulsante, feroce monologo privo di un sol punto - e mentre si alza dalla sedia, si muove verso il fondo, là dove caccerà il suo più alto urlo di dolore, l' imprecazione contro la madre, l' invocazione a essa - e mentre gira intorno all' oscuro spazio, il poco spazio che gli è concesso, dà la sensazione, quasi materiale, di tessere una spirale intorno a colui, o coloro, cui si rivolge. È a tutti estraneo, da tutti rifugge, tutti disprezza o odia, ma non c' è chi non diventi suo prigioniero. La sua parola (la parola di Koltès) è come una subdola, inevitabile vendetta.
baglioni favino hunziker
Ma vendetta di cosa? Per quale ragione? Mi sembra di ricordare che nello spettacolo del 2004 (la regia era, come nel 2018, di Lorenzo Gioielli) Favino avesse impresso alle sue parole una cadenza da emigrato, un romeno, o un albanese che avesse imparato un discreto italiano.
Oggi questo accento è un poco dissolto, è l' accento non di un emigrato ma di uno straniero, uno straniero assoluto: potrebbe essere piemontese, o milanese, o lucano: parlerebbe con quella cadenza strana, cantilenante: sarebbe un italiano come noi, eppure straniero in patria. E da cosa potrebbe egli essere indotto a parlare, a parlare in quel modo, se non da un lungo silenzio?
favino
Non parla mai con nessuno, non c' è chi lo ascolti. Vaga nella notte perché se la notte è per tutti più rischiosa, per lui lo è meno. Piove ininterrottamente, ma gli alberghi gli sono preclusi, non ha soldi, i pochi che aveva glieli hanno rubati «i ragazzi del venerdì sera» sulla metro - quei ragazzi che hanno paura di tutto, di chi gli somiglia e di chi non gli somiglia.
Là, sul ponte, ha visto qualcosa di biondo: insegue quella biondità, è vicina, la perde, sguscia via. È una puttana o un fantasma? D' altra parte, se l' avesse raggiunto, non avrebbero avuto a disposizione una stanza; l' avessero avuta a svelare la menzogna ci sarebbero stati gli specchi: sempre in città c' è il pericolo di uno specchio alle nostre spalle. Come, c' è il pericolo della foresta. Lui è leggero, «basta un soffio di vento a farci portare via» - a quelli come noi; e di fronte abbiamo, tra i tronchi degli alberi e tra le foglie, quei «viziosi impuniti, freddi, calcolatori, tecnici, il piccolo clan dei porci tecnici che decidono: in fabbrica, e zitti!».
Koltès
A destra la fabbrica e a sinistra, proprio qui vicino, la foresta, «storie di foreste in cui nulla osa muoversi per via delle mitragliatrici, storie di puttane seppellite senza che se ne sappia nulla»; e storie di cacciatori di topi (cioè di gente come quella), storie di «facce da assassini», con le «loro belle facce di lusso, loro che godevano tra di loro e che godevano di noi da tanto tempo» - noi figli di un padre «bello tosto», che di noi ha fatto degli esecutori, senza paura; ma anche figli di una madre che ci ha fatto nervosi, ragazzi di un nervosismo che «non si tolgono di dosso qualunque cosa facciano», ragazzi che la madre ha reso per sempre deboli, inconsistenti. Per conoscere, per loro, per lui, non c' è che «una botta e via», niente di più è possibile.
pierfrancesco favino
marco giallini favino
«Sono anche il tipo, io - mite dice Favino - che invece di guardare una ragazza preferisce camminare, e mi basta questo, non vorrei fare altro per tutta la vita, a volte mettermi a correre, fermarmi su una panchina, camminare più o meno in fretta, senza mai parlare». Ma meno mite, più dolente, più privo delle difese che diceva di avere, di non volere altro che una difesa, radioso urla Favino, piange Favino: «Non muoverti, ti amo, compagno, io cercavo qualcosa che fosse come un angelo in mezzo a questo casino e ora tu sei qui».
Koltès
CHI È KOLTÈS
L’autore Bernard-Marie Koltès (Metz, 9 aprile 1948 – Parigi, 15 aprile 1989) è stato un drammaturgo e regista teatrale francese famoso per opere come La notte poco prima della foresta (1977), Sallinger (1978) e Nella solitudine dei campi di cotone (1986). Molti suoi testi sono stati allestiti per la prima volta da Patrice Chéreau (1944 – 2013) quando era direttore artistico del Théâtre des Amandiers a Nanterre. All’epoca della sua morte, Koltès era considerato tra le giovani voci più importanti del teatro francese, erede di autori come Samuel Beckett, Jean Cocteau e Jean Genet. Le sue opere teatrali sono diventate il punto di riferimento nel repertorio moderno di tutto il mondo, essendo state tradotte in quasi quaranta lingue