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    DAGOGAMES BY FEDERICO ERCOLE - LASCIATE OGNI SPERANZA DI DIVERTIMENTO, BRIVIDO E PASSIONE VOI CH’ENTRATE SU NETFLIX PER VEDERE “RESIDENT EVIL - LA SERIE” - DURANTE QUESTE OTTO PUNTATE PIÙ CHE TEDIOSE, SENZA RITMO E COERENZA, VIVREMO IL SORGERE DELL’APOCALISSE E LE SUE CONSEGUENZE IN UNA PALUDE DI IMMAGINI E PAROLE DOVE AFFOGANO L’HORROR E L’IDEA STESSA DELLA SAGA DI CAPCOM - VIDEO


     
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    Federico Ercole per Dagospia

     

    C’è un accanimento verso la serie dei videogiochi di Resident Evil, da parte di cinema e adesso anche la televisione occidentali, nell’abbrutirlo; cosa che risulta oltremodo ipocrita e fallace perché non sorge come volontà di farlo più “brutto”, che per l’horror avrebbe un senso, ma al contrario di elevarlo, di renderlo più digeribile, più adatto ad un pubblico vario, più complesso nell’immagine e nella sceneggiatura.

     

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    Se l’ultimo lungometraggio Welcome to Raccon City tentava con astuzia mal simulata e assai poca intelligenza di ricondurre gli horror interattivi di Capcom in un ambito di b-movie fallendo del tutto nel collocarsi nella mitologia e nelle atmosfere della saga malgrado qualche citazione (scorretta) e risultando nella sua ostentata grettezza solo un’opera meno che mediocre oltre che un film di serie B fasullo, mendace e diretto male, ora tocca alla nuova serie di Netflix il compito di dimostrare quest’infausto rapporto tra Resident Evil e un’immagine che non sia numerica, perché da questi squallore e mancanza di sincerità si salvano i lungometraggi giapponesi in computer-graphic, soprattutto il notevole e avveniristico Damnation.

     

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    Ecco dunque Resident Evil la Serie, otto puntate quasi insostenibili raccontate in due diversi ambiti temporali, tra il sorgere dell’apocalisse e l’apocalisse. Ci sono anche due o tre cose belle ma effimere, intuizioni che lasciano intuire che qui almeno un pensiero estetico e forse un’idea di cinema in gioco ci sono: Jade Wesker (interpretata da Ella Balinska) abbigliata con i colori di Michael Jackson in Thriller con tanto di ciuffo ribelle ricciolo sulla fronte, l’arrivo della famiglia Wesker in una nuova Raccoon City diffusa di un candore ospedalesco accecante. Quasi tutto il resto è noia.

     

    NEW RACCOON CITY

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    La famiglia Wesker arriva in città, New Raccoon City questa volta costruita in Sud Africa. Egli è tra cattivi storici della saga ma qui è uno scienziato di alto livello dell’Umbrella, cosa strana ma della quale infine almeno capiremo il motivo; con lui ci sono le due figli quattordicenni, Jade e Billie. Allora qui Albert Wesker è nero, cosa che scandalizzò a priori i fan, che dovrebbero ricordarsi quello che affermò Stephen King quando il suo Roland fu affidato a  Idris Elba nel poi comunque pessimo, e non certo per i grandi attori coinvolti, La Torre Nera: “non mi importa quale sia il colore della pelle del Pistolero, l’importante è che sappia sparare”.

     

    Ecco per la serie in questione e per altre opere che cambieranno “colore” dei personaggi rivolgendosi ad un pubblico di giovani che stanno crescendo senza considerarle differenze e senza nemmeno farci caso, valgono le parole del Re e Lance Reddick nel ruolo di “questo” Albert Wesker è davvero degno di nota, fin troppo per il triste ambito.

     

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    Il racconto dei tempi adolescenziali vorrebbe essere in parte “teen-drama” per adolescenti che magari già conoscono il videogioco e sono abituati a cose assai più meritevoli come Stranger Things, ma risulta invece imbarazzante col sua povertà di scrittura e con i luoghi comuni del genere buttati nel mucchio non selvaggio ma svogliato della sceneggiatura senza nessuna ispirazione, senza alcun barlume di una qualsivoglia profondità. Ci sono poi nella cronaca di questi “anni verdi” alcune incoerenze che sfiorano l’incredibile come quando le due ragazze si introducono di notte nella sede dell’Umbrella che dovrebbe essere sorvegliatissima, senza che non ci sia neanche l’ombra di un guardiano notturno. Si riempirà ovviamente solo dopo, a danno compiuto.

     

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    CRONACHE DELLA FINE

    Ecco invece, quattordici anni dopo, i tempi di un’apocalisse zombie e altri mostri durante la quale è sopravvissuta solo una ridotta parte dell’umanità. Questa cronaca è intervallata al passato in maniera artificiosa, con un contrappunto sbagliato che nega ogni suspence. Qui Jade Wesker si destreggia tra morti viventi ipercinetici, mutazioni, spietati e insensati eserciti dell’Umbrella come se fosse la protagonista di un balletto diverso da quello che avrebbe dovuto danzare.

     

    Resident Evil ha sempre fatto leva sull’insicurezza, sulla precarietà della “vita” del giocatore/personaggio giocato, qui invece non percepiamo mai nessun senso del pericolo, Jade è protetta dalla sceneggiatura, sempre, e lo si percepisce con un senso di tedio crescente, fino all’esaurimento di ogni interesse. Fuori luogo è persino la musica, sia quando vorrebbe sottolineare momenti d’introspezione e intimismo, sia quando accompagna l’azione.

     

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    Non consigliabile agli appassionati della saga, a chi non l’ha mai frequentata, in definitiva a nessuno, Resident Evil la Serie è come un mobile di Ikea montato male che cede dopo pochi giorni dal suo completamento, un’opera che fallisce in ogni suo proposito se mai un proposito ci sia stato se non quello di sfruttare un marchio famoso e di culto, senza interesse e con incompetenza. Più trascorrono gli anni più risulta inspiegabile, persino blasfemo, che la Capcom, anni addietro, abbia tolto ad un maestro come George Romero la possibilità di dirigere il suo Resident Evil, perché non piacque la sua sceneggiatura.

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