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Il soffitto è basso, schiacciato sul letto a castello della cameretta dov’è cresciuto, a Calvagese della Riviera, e dove ha scritto la prima canzone neanche tre anni fa, per far colpo su una ragazzina. Si mette sdraiato e da lì parla, sintetico e abbastanza a strappi, pieno di puntini sospensivi e segreti che usa come selvaggina dell’anima a cui va a sparare nelle personali battute di caccia, e che saltano dai suoi occhi come conigli terrorizzati. Dice che è un pomeriggio in cui «se la sta sciallando», dopo giorni di promozione per parlare del suo disco di debutto Blu celeste, che ha colpito la critica e sta piacendo a tutti.
la canzone nostra blanco e salmo
Vicino al cuscino c’è una sua foto da bambino mentre ride nel sole, una risata spalancata che negli anni deve essersi un po’ perduta, perché ora ciò che resta di Blanco (il suo vero nome è Riccardo Fabbriconi) sono dodici canzoni fatte di una disperazione abbastanza invidiabile, buttata fuori con urla e strascichi, ringhi e sospiri, e versi che sembrano metafore e invece non lo sono. Dice che in molta musica italiana c’è poca autenticità, poca trasparenza, le storie raccontante dai cantanti sono spesso inventate, i toni sono esaltati: «Io invece dico solo quello che ho vissuto. Io ho diciotto anni e sono una creatura naturale», fa Blanco, stropicciandosi la faccia, non aggiungendo una parola, obbligando a una domanda.
Quante volte ha rischiato di morire?
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«Secondo me una volta sola, e basta».
Un incidente.
«No…».
Quindi quei versi in Mezz’ora di sole non sono una metafora: «Sono in quel parco / nel 2018 / sporco di fango / mi volevo ammazzare».
«Non vorrei entrare nei particolari, però sì. Perché vede, se cerchi di vivere la vita in modo naturale, come faccio io, poi i bassi sono bassi per davvero, e te e il dolore diventate d’un tratto una cosa sola, e non lo colmi certo con una stupidata. Le emozioni sono una delle poche cose su cui non puoi aver dubbi: se soffri, soffri. Se sei felice, sei felice. Se bluffassi anche solo un po’, se non fossi uno che ha vissuto certe cose davvero, in modo selvaggio, gliele racconterei tranquillamente».
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Che cosa l’ha salvata?
«Mi ha salvato la musica».
Fosse accaduto, di sé cosa avrebbe lasciato?
«Probabilmente niente».
Essere veri ed essere selvaggi sono sinonimi?
«Sì, perché alla fine selvaggi è quello che siamo davvero. I vestiti che portiamo addosso non ci rappresentano. Per come la vedo io siamo nudi, senza casa, senza soldi».
È selvaggio anche nell’intimità?
«Nell’intimità sono marcissimo, per gli standard di oggi quantomeno, e in quell’ambito è meglio non conoscermi proprio. Ma lo dico in senso positivo: cerco di stare completamente connesso col mio corpo».
E cosa fa?
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«Vado nei boschi, mi spoglio, resto con gli occhi chiusi e penso. Il mio culo appoggiato sulla terra fredda, il niente: dovrebbero provarlo tutti. Anche se penso che molti non ce la farebbero a restare lì così, all’intreccio tra vita e morte che poi è il filo conduttore di tutto il mio disco. Voglio che mi arrivi la verità. La consapevolezza che un Rolex non ti accompagnerà al creatore. Le emozioni invece sì. Quelle te le porti nella tomba».
Perché pensare alla vita e alla morte, a diciott’anni?
«Non lo so, è iniziato tutto durante quelle ore nei boschi, quel sentirsi un puntino nell’universo. Sembra una cosa molto pesante ma invece mi ha fatto bene. Siamo in un periodo storico dove tutto è artificiale. Invece ci vuole l’elemento umano. L’unica cosa che la tecnologia non arriverà mai a rimpiazzare è l’uomo».
Nel frattempo ha lasciato la scuola. Se ne pentirà, lo sa?
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«Consiglio a tutti di non farlo, ovviamente, perché la cultura è alla base di tante cose. Ma penso anche di averne accumulata, in qualche modo. E penso che in parte la mancanza si possa compensare leggendo libri e vivendo la vita. E non dimentico di come la scuola può farti sentire, quella tendenza a trasformarti in una sorta di dipendente standard. Per adesso, sinceramente, non mi pento. Anche perché credo che a un certo punto si debba anche essere un po’ furbi».
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Che scuola frequentava?
«L’istituto professionale per parrucchieri».
E come diavolo le era venuta in mente?
«Mi avevano detto che c’erano tante ragazze».
Lei sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini, lo sa?
«Mi scusi, ma non ho davvero idea di chi sia».
Un selvaggio, direi.
«Ecco, allora già mi piace».
Cosa intende dire dicendo che occorre essere «furbi»?
«Furbi verso la vita intendo, non certo nei riguardi delle persone. Bisogna andare dritti al sodo, a prendersi quello che si vuole. Certo, bisogna anche essere attrezzati…».
Lei ha scritto la prima canzone tre anni fa. Lei è un talento puro e acerbo, ma non è attrezzato.
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«Perché nella musica non ci vogliono schemi. Io ci metto dentro tutte le mie emozioni. Lei è l’unica cosa che mi fa alzare la mattina e pensare “che bello”. Senza la musica preferirei morire».
Le sue parole e le sue interpretazioni sono sempre molto psichiche, sembrano arrivare da un gorgo profondo.
«Dove il nero che vedi è il fondale. E sul fondale ci sono stato. Ma se quando lo tocchi sei leggero, se sei vero con te stesso, allora a un certo punto torni su a galla».
La canzone Figli di puttana è la sua Siamo solo noi?
«È un ricordo di quello che eravamo da ragazzini, io e i miei amici in provincia. Un po’ degli scappati di casa, vestiti male, a petto nudo sotto la pioggia mentre passavano le macchine, a fare il bagno nelle pozzanghere oppure nel fiume, a dicembre, per poi tornare a casa con la broncopolmonite. E poi le feste clandestine nei campi, con le casse a tutto volume che disturbavano il paese e la polizia che arrivava. Ricordo centinaia di persone che scappavano a caso, con le tende sotto braccio».
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Il tutto, il niente.
«Il semplicissimo stare insieme. Per poi aspettare la noia: che ringrazio. E fossi cresciuto in città forse non avrei conosciuto. E che si è accumulata e infine canalizzata in musica».
Di cosa bisogna fottersene per vivere bene?
«Di tutto quello che è in più, del contorno. Quando mi preparo la mia pasta, dico vaffanculo alle patate».
Nel brano David, quando canta «Mi prendo cura di te», nell’interpretare raddoppia la «erre» e subito un’intenzione bella diventa minacciosa, un’offerta da rifiutare. Lei sente di essere un’offerta da rifiutare?
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«In realtà non volevo trasmettere quella sensazione. Al contrario, raddoppio la erre per dare un’idea di determinazione. Le persone che ho attorno non le voglio cambiare. E voglio dare a tutti una mano».
Chi è Giulia?
«Mi scusi ma preferirei non dirglielo».
La tratta bene?
«Mi prendo cura di lei. Sempre».
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