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    “LE RETI SOCIALI HANNO AVUTO UN'INFLUENZA NEGATIVA SULLA SOCIETÀ” – LO SCRITTORE SPAGNOLO FERNANDO ARAMBURU MENA SUI SOCIAL MEDIA CHE, ANZICHÉ RENDERE PIÙ APERTE LE SOCIETÀ, STANNO CONTRIBUENDO A RINCRETINIRE GLI UTENTI, CONSEGNATI AGLI ALGORITMI, PROFILATI PER LA PUBBLICITA' E CHIUSI NELLE LORO "BOLLE" (IN CUI LE OPINIONI SI POLARIZZANO NON C'E' ALCUN CONFRONTO) – NEL 2015 ECO DISSE: “I SOCIAL MEDIA DANNO DIRITTO DI PAROLA A LEGIONI DI IMBECILLI CHE PRIMA PARLAVANO SOLO AL BAR DOPO UN BICCHIERE DI VINO”


     
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    Massimiliano Panarari per “la Stampa”

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    Da qualche tempo, i narratori sono tornati «piromani» e agitatori culturali. Tanto che le querelle che fanno l'agenda del dibattito pubblico, sempre più spesso, hanno alla base uno scrittore che innesca la miccia. Così, ieri, a Pordenonelegge, a dare fuoco alle polveri ci ha pensato lo scrittore spagnolo (ed europeista convinto) Fernando Aramburu, presente al festival per ritirare il Premio Crédit Agricole FriulAdria «La storia in un romanzo» 2021. 

     

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    E in quella cornice ha fatto una serie di considerazioni assai decise sullo spirito dei tempi. Pensiero forte, insomma. Sull'ideologia, di cui lui - basco di origine - ha voluto sottolineare il rischio permanente di derive violente e l'inclinazione genetica verso l'estremismo. Dalle sue parole traspare un presente fosco, sprofondato in uno stato di natura hobbesiano, dalle guerre ai femminicidi in crescita incessante. 

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    Ma le affermazioni che hanno fatto più rumore non potevano che essere quelle sui social, sui quali - letteralmente - è andato giù con l'accetta, dichiarando che «le reti sociali hanno avuto un'influenza negativa sulla società». Tesi che ricordano quelle di Umberto Eco, quando - durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa da parte dell'Università di Torino, nel giugno 2015 - disse che «i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività». 

     

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    Di sicuro, si troverebbero d'accordo le giornaliste del New York Times Sheera Frenkel e Cecilia Kang, fresche autrici di Facebook: l'inchiesta finale (Einaudi, pp. 370, euro 19), un documentatissimo reportage investigativo sulla recente conversione della corporation di Mark Zuckerberg in una megamacchina di sfruttamento intensivo dei dati personali e in un canale h24 di diffusione di propaganda e fake news da parte di vari soggetti nemici della democrazia. 

     

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    Sempre i social network e il web della (apparente) disintermediazione e orizzontalizzazione, anziché rendere più aperte le società, stanno contribuendo a reintrodurre dei «tabù». Quindi, invece di allargarne gli orizzonti, rinchiudono nelle camere dell'eco i loro utenti, consegnati dagli algoritmi, con la loro efficientissima profilazione commerciale e pubblicitaria, a un destino di sempre maggiore tribalizzazione e incomunicabilità tra diversi.

     

    E, così, oltre a promuovere una reintermediazione invisibile, i social spingono l'acceleratore a tavoletta verso la polarizzazione delle opinioni, da cui scaturisce il frutto avvelenato dell'hate politics. Esattamente una delle forme della nuova violenza ideologica a cui si riferisce lo scrittore spagnolo, e che da verbale, finché rimane sul web, può farsi fisica quando tracima nella quotidianità (come mostrano vari casi di cronaca, dai neofascisti a certe frange novax). 

     

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    E questo proprio perché, nella nostra età della piattaformizzazione, i media sociali sono divenuti sempre maggiormente dei produttori di realtà sociale. Perciò, la letteratura - sostiene Aramburu - deve assolutamente fare la propria parte, senza avventurarsi nel mestiere di altri («come la sociologia»), e nella piena consapevolezza di quelle che potremmo chiamare le sue «specificità (e limitazioni) comunicative» - dal momento che si rivolge alle coscienze individuali dei lettori, e non a quelle che in un passato non troppo remoto venivano chiamate le «masse». 

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    E, più in generale, devono darsi da fare tutti gli intellettuali, offrendo punti di vista plurali e differenti rispetto a quello di volta in volta maggioritario per scongiurare il pericolo del pensiero unico. «Vasto programma», ma da perseguire senza alcun dubbio. E, dunque, queste riflessioni dello scrittore risultano davvero utili e opportune. 

     

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    Perché, per ritornare a Eco, occorre sottrarsi alla logica dicotomica dell'essere apocalittici o integrati. E bisogna impegnarsi affinché tertium datur in questa epoca postmoderna avanzata, che coincide precisamente con il regno delle ambivalenze e delle ambiguità. I social network sono stati indiscutibilmente - come ha scritto il sociologo Giovanni Boccia Artieri - la «palestra sociale» per lo sviluppo di nuovi significati e pratiche collaborative. Ma non è tutto oro quel che luccica, specie sotto il dominio incontrastato del capitalismo digitale e della sorveglianza.

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