Gianmaria Tammaro per Dagospia
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Finalmente c’è una serie sui supereroi che non è la solita, banalissima lotta contro il male. Si chiama “The Boys”, è disponibile su Amazon Prime Video ed è basata sul fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson (qui in Italia edito da Panini Comics).
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Il protagonista, Hughie, interpretato da Jack Quaid, è un ragazzo qualunque, semplicissimo, che vede morire la sua ragazza per colpa di un super, di un supereroe cioè, e che da allora, intristito e depresso, fa fatica ad andare avanti. Poi un giorno, sulla porta del negozio di elettronica per cui lavora, arriva Billy Butcher, interpretato da Karl Urban: ex-operativo CIA, mercenario, spietatissimo. Gli fa una proposta: aiutami a buttare giù i Sette, i supereroi più potenti della Terra. Perché sono corrotti, perché sono fuori controllo; perché sono pericolosi.
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Hughie all’inizio dice di no, ma poi capitola, e s’unisce ai “Boys”, ai ragazzi, al gruppo di falliti capitanato da Butcher. E così comincia la lotta per la verità (e per la vendetta, e per una remotissima e vaghissima idea di giustizia). Tra serie tv e fumetto, chiaramente, ci sono molte differenze. Una fra tutte: sulla carta, il protagonista aveva il volto di Simon Pegg, e tutto era più british; in questa versione, invece, Pegg interpreta – come omaggio, sospettiamo – il padre di Hughie, e ha pochissimi posati. Tutta la storia, poi, si sposta negli Stati Uniti. E più che una parabola contro i supereroi, questa è una parabola contro l’establishment, contro la superficialità di un certo successo e di una certa idea di giustizia, contro l’idea machissima dell’America invincibile e salvatrice.
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I supereroi, ovviamente, sono un’estremizzazione. Ma incarnano gli effetti negativi del potere sulle persone. I Boys, invece, sono l’estremizzazione dell’umanità, della nostra inesauribile capacità come individui di commettere – e di ripetere - errori. Ma c’è anche un altro piano di lettura, molto più attuale e concreto, che prende di petto il fenomeno dei cinecomic.
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È il filone, il genere, che funziona di più. È quello che fa incassare più soldi alle major, e che porta le persone in sala, che stacca biglietti, che paga – perché paga – produzioni, manodopera e stipendi. Ma non tutti i cinecomic sono tridimensionali, cioè non tutti questi film hanno una completezza narrativa e drammaturgica; non tutti questi film vanno oltre il concetto del bene contro male. Anzi, talvolta, devono rimetterlo al centro per ottenere il massimo.
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Non tutti i cinecomic, ecco, sono come il “Dark Knight” di Christopher Nolan: che metteva in discussione tutto, che parlava di libertà e di presunta giustizia; che criticava, e criticava duramente, il ruolo dell’eroe (che rischia di diventare il cattivo). “The Boys”, che imbocca a tutta velocità la strada del pulp, dello splatter e dell’eccesso, è molto più efficace sotto questo punto di vista: mostra, perché mostra, una criticità di fondo; fa diventare tutto l’ennesimo, complicatissimo piano di una grossa multinazionale; dimostra che l’uomo, finché uomo, è corruttibile; e poi ribalta completamente i piani, più e più volte: i buoni sono i cattivi, i cattivi sono i buoni, e via così, all’infinito.
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E poi è esteticamente superba, curata, dalla fotografia alla regia, dalla scrittura – firmata da Eric Kripke, che ha anche la paternità del progetto – al cast (Anthony Starr, che interpreta Homelander, il capo dei Sette, è perfetto; come ha detto Ennis, “sembra uscito dalle pagine del fumetto”). Amazon, che in “The Boys” ci ha visto un certo potenziale, l’ha già rinnovata per una seconda stagione. Ora bisogna capire come, e se, evolverà. Come dai falsi eroi ci si sposterà più avanti, o anche più indietro.
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L’elemento più importante e più sensazionale, comunque, resta la capacità di questa serie di non fermarsi, di non limitarsi, di andare sempre oltre e sempre più avanti, con le scelte di sceneggiatura e di regia. Nessuna idea è troppo, o troppo poco, per non essere presa in considerazione. Nessuna idea è troppo, o troppo poco, per poter essere tradotta in immagini, in scene, in realtà (di finzione). E poi la musica: che fa la metà dell’opera spesso, e che qui è bellissima, perfetta, calibrata al millimetro. Non solo c’è un gran bel vedere; ma ha anche una stupenda colonna sonora. E questo, da qualunque punto di vista lo si guardi, è sempre una vittoria.
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