LA CAPRIA
Malcom Pagani per Il Messaggero
Prospettive di Raffaele La Capria: «Tra due mesi avrò 95 anni e se avrò fortuna diventerò anche centenario. Ho quasi un secolo, ho visto tutto e mi tiene in piedi la curiosità. La morte non mi spaventa, a farmi davvero paura è la vita eterna. Non la vorrei e anzi aspetto con la fine con serenità. I limiti e i confini sono salutari, giusti, persino consolanti. Se non esistessero, non ci sarebbe neanche l'arte: il prelevare dalla vita che corre qualcosa che resti, un angolo di bello da mettere in cornice».
Nella casa alle spalle di Piazza Venezia, il tempo di uno degli scrittori più originali dell'ultimo mezzo secolo, scorre lento. La libertà di un pigiama di cotone a mezzogiorno. Una poltrona. Molti libri: «Un po' di solitudine che allevio rileggendo i classici. Ieri ho ripreso in mano I fratelli Karamazov, lo leggevo a Palazzo Donn'Anna, quando ero ragazzino e d'estate, più in là degli archi, il tufo abbracciava l'azzurro del mare».
FLAIANO
È estate anche adesso.
«Ma è un'estate diversa. Non nuoto più. Esco pochissimo. E gli amici di un tempo se ne sono andati quasi tutti».
Che ricordi ha della sua adolescenza?
«Ricordi bellissimi. A Palazzo Donn'Anna vivevano persone di tutti gli strati sociali. I figli dei pescatori, i borghesi, i nobili. Io ero amico soprattutto degli scugnizzi. Cercavo un terreno comune. Un linguaggio per superare la diversa estrazione, ma interrogativi sociologici, per igiene mentale, non me li sono mai posti».
La sua famiglia?
LA CAPRIA
«Mio padre, un uomo dolce a cui poi rimproverai l'eccessiva tolleranza, era diverso dal genitore severo e tutto d'un pezzo descritto nei suoi libri da Kafka. Commerciava in grano e divenne direttore del locale consorzio agrario».
E sua madre?
«Era snob e un po' aristocratica. Mio fratello Pelos, un profanatore, si divertiva a scandalizzare lei e le sue amiche altolocate con un linguaggio volutamente volgare. Aveva inventato alcune locuzioni disgustose e non appena poteva, si esercitava nello spettacolo della dissacrazione».
Esempi?
«Tornava a casa, buttava una giacca sul divano, si stiracchiava platealmente e poi diceva: Ho una fame da porco, mi mangerei un cesso di fagioli. Le dame chic inorridivano e lui, che lo faceva apposta, ne godeva».
Quando arrivò a Roma?
«Nel 1952. A trent'anni. Non sapevo fare niente di manuale e di concreto e quindi, come era ovvio, iniziai a lavorare per la televisione. La Rai di allora era un luogo ideale per gli aspiranti scrittori».
Quando capì che possedeva un talento per la scrittura?
goffredo parise
«Il mio momento fondativo si perde nella notte dei tempi e nella smemoratezza. Da bambino, ero in un parco di Napoli, mi si posò addosso un uccellino. Tornai a casa eccitato e nel raccontarlo a mia madre, mi resi conto che con una sola frase non avevo trasmesso nessuna delle emozioni che avevo provato in quell'istante. Capii che mi sarebbero servite più parole e che quelle parole andavano organizzate. Mi domandai come fare, mi diedi da fare».
Il suo primo grande successo, nel 1961, Ferito a morte coincide con una combattuta edizione del Premio Strega.
«Superai Arpino per un solo voto, ma da ragazzo ero più presuntuoso di oggi e quella vittoria in qualche modo me l'aspettavo. Conquistai un Premio che a differenza di oggi poteva cambiarti la vita».
E quel Premio le cambiò davvero la vita?
«Per ragioni diverse da quelle che si potrebbero immaginare. Gli editori premevano per mungere lo scrittore di grido e io mi sentii a disagio. La mia indifferenza al plauso non era impostata, era reale. Mi ritirai all'improvviso e per un lungo decennio non scrissi più niente».
LA CAPRIA ROSI GHIRELLI
Come sfruttò quel tempo?
«Cercai di capire meglio chi ero. Volevo sapere chi fossi diventato veramente e mi impegnai per scoprirlo ogni giorno senza pretendere risposte certe. Fu come entrare in un territorio sconosciuto».
Chi è e chi è stato Raffaele La Capria.
«Per dirla con Menandro e con Terenzio, un Heautontimorumenos. Un punitore di se stesso. Sicuramente non ho mai avuto nessuna velleità di apparire diverso da quel che ero».
Lei rappresentava un tipo umano distante dagli intellettuali impegnati della sua epoca.
«Non a caso, Pasolini non mi amava. Le sue giacchette - diceva - i suoi pantaloni d'alta sartoria e intendeva qualcosa di lontanissimo da lui. Mi considerava un borghese altolocato, come d'altra parte erano - e lì brillava un paradosso - la maggior parte dei suoi amici. Ma i borghesi per gli intellettuali come Pier Paolo erano riprovevoli. Io intuivo l'anatema e per provocarlo, giocavo a interpretare la macchietta».
E a lei Pasolini piaceva?
«Non come romanziere perché non mi pareva che nei suoi libri ci fosse alcuna innovazione. Però era intelligente. Lo rispettavo. Sapeva leggere in anticipo i movimenti della società e lottava per renderla migliore in un'epoca in cui il conformismo sulle conquiste civili e lo struzzismo erano convenienti. Ero molto amico del suo amico Moravia invece».
moravia pasolini
Che memorie ha di Moravia?
«Era pessimista, di un pessimismo innato e indomabile. Per certi versi, camminava con un'ombra nera a fianco, non dissimile da quella che si proiettava su Ennio Flaiano. Grande talento pieno di intelligenza e ironia, con un fondo di tristezza inestinguibile che si avvertiva, si percepiva, si sentiva distintamente».
Il ricordo di Flaiano è legato all'epoca della Dolce Vita.
«Che era meno dolce di quanto non si potesse immaginare. Me lo ricordo ancora Ennio, al limitare di Via Veneto, mentre osserva dei gagà vestiti a festa dall'altro lato della strada e girandosi verso gli amici dice: Guarda quelli, credono di essere noi».
Lei ha conosciuto bene anche Gadda e Parise.
«Molto amici tra loro e al tempo stesso diversissimi. Il giorno e la notte. Gadda è stato uno scrittore enorme, un po' barocco, meno grande di Parise perché forse Parise è stato il più straordinario in assoluto dal secondo dopoguerra a oggi. Tanto Gadda era introverso e sospettoso, tanto Parise era balzano, spiritoso e instancabile animatore di scherzi feroci».
A chi erano diretti gli scherzi?
«Proprio a Gadda. Goffredo conosceva il percorso quotidiano che Gadda compiva da Via Blumenstihl all'edicola e si divertiva nottetempo a ridisegnare le strisce stradali. Gadda, preoccupato, ci costruiva sopra percorsi dietrologici: Ma credi mi debba preoccupare - gli diceva - pensi che qualcuno mi stia seguendo?. Non erano gli unici scherzi armati da Parise».
LA CAPRIA
Ci racconti gli altri.
«Una volta ritagliò giornali scandalistici fino a formare dei finti falli di carta, poi, proprio dall'ufficio postale da cui Gadda spediva le sue lettere, inviò plichi pieni degli stessi falli in forma anonima alle amiche di Gadda. Carlo Emilio era sconvolto. Era certo che le signore avrebbero attribuito il colpo di testa proprio a lui».
In cosa ha creduto nella vita?
«Sicuramente non nella politica. Ho creduto nell'amore. Ho amato molto e sono stato anche amato o rifiutato. Conosco tutti gli aspetti di quella fenomenologia. Il territorio dell'amore per me è stato molto importante. Per me l'amore è conoscenza perché non si conosce veramente qualcosa se non la si ama».
LA CAPRIA
Da tempo immemore si accompagna con Ilaria Occhini.
«Quando fuggivamo al mare guardavo sempre in alto per capire da dove fosse piovuta la fortuna di poter dividere il tempo con una donna così bella. Io ero bruttarello, lei una dea. Una dea che all'epoca incarnava un'eroina della tv e che veniva riconosciuta ovunque. Non potevamo fare un passo da soli, gli ammiratori la assediavano. E sempre a proposito di divinità, temevo che gli dei potessero avercela con me».
Come mai?
«Per invidia. Con Ilaria ho attraversati momenti così felici che a tratti mi sembrava di essere proprio un dio. Sono stato un uomo felice e fortunato. Al mio novantesimo compleanno, circondato dall'affetto di tanti amici, ho fatto anche un piccolo esorcismo. Se esiste la nèmesi- ho detto- siamo proprio inguaiati».
RAFFAELE LA CAPRIA
Il suo soprannome è Dudù.
«Oggi è il nome del cane di Berlusconi, ma ben prima del quadrupede, ho sempre sospettato che con un nomignolo del genere non sarei mai stato considerato un vero scrittore. Gli amici mi tormentavano. Flaiano diceva: Dudù, non sei più dù e Gadda raccontava di due amanti d'albergo inglesi che - complici le pareti sottili e le esortazioni della ragazza: Do-do-do gli avevano fatto trascorrere una notte d'inferno con la musica del mio soprannome nelle orecchie: Dù, dù, dù. Così, per ore e ore».
A quasi 95 anni le ore hanno un ritmo diverso?
«Vedere la vita trasformarsi a ogni minuto e osservare questa continua metamorfosi che non si può fermare né catturare continua a piacermi».
ILARIA OCCHINI NAPOLITANO
Avrebbe mai immaginato di giungere fino a qui?
«Sono nato in un'epoca in cui si andava a piedi e adesso vivo nell'era dell'intelligenza artificiale. È avvenuto tutto in maniera così rapida, così subdola, di certo ho visto tutto. Alla vecchiaia da ragazzo, ma anche da cinquantenne, non ho mai pensato. Ci penso adesso perché sono veramente vecchio».
E a cosa pensa?
«Che la vecchiaia, come in quel bel film di Sorrentino, ha tanti momenti che riportano alla giovinezza. Ho tanti amici più giovani di me. Amo ascoltarli. È un privilegio. Loro rappresentano il futuro. Anche il mio futuro».
Cosa le manca?
berlusconi con dudu
«Gli amici. Se non li avessi incontrati, non sarei quel che sono. Ne ho avuti tanti, da Peppino Patroni Griffi fino a Francesco Rosi, il più caro, il più lieve d'animo: il fatto che non sia più qui mi fa soffrire. Non sono i padri a insegnarci qualcosa, ma i nostri coetanei».
Le rimangono I Fratelli Karamazov.
«La scoperta dell'anima, Dio, gli uomini, la morte, la vita. I romanzi di allora non parlavano dei piccoli avvenimenti casalinghi, dei tinelli, delle cose inutili».
Ha mai litigato con qualcuno?
«Credo di sì, l'importante è non ricordarselo. Mio fratello Pelos - per dirla con Thomas Mann - un beniamino della vita, me lo ripeteva sempre».
raffaele la capria
Pelos passò la seconda parte della sua vita con Isa Barzizza, l'attrice preferita da Totò: con De Curtis girò ben undici film.
«Pelos era unico, eccezionale, uno spiritosissimo mercurio shakespeariano. Pazzo e scatenato. A Rosaria, la governante, rubava i denti d'oro».
Come?
«Prima la blandiva: Con quei denti d'oro non avrai mai il sorriso che meriti. Sei bellissima, se me li dai ti farò avere in cambio una dentiera bianchissima. Lei che aveva un aspetto tremendo e bella non sarebbe mai stata si lasciava convincere e Pelos con i proventi dei denti d'oro andava in giro a gozzovigliare.
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Quando Rosaria capì l'inganno, incazzatissima, andò a lamentarsene con mio padre: Signoria - gli disse - suo figlio mi ha truffato, adesso posso mangiare soltanto le minestrine e lui, comprensivo: Ma Rosaria cara, non lo sai che è un mascalzone nato?. Al figlio di Eduardo De Filippo, notoriamente parsimonioso, Pelos diceva sempre: Fatti accattà o Giaguàr. Intendeva Dal tuo padre che ha i soldi, fatti comprare una Jaguar».
Lei infilò l'episodio dei denti d'oro nella sceneggiatura di Leoni al sole di Vittorio Caprioli.
«Ho scritto a lungo per il cinema e mi sono molto divertito. In Africa, con Nelo Risi, vidi uno spettacolo che mi portai dietro per molti anni. Il film che avevo sceneggiato per lui si intitolava Una stagione all'inferno e raccontava l'amore tra Rimbaud e Verlaine. Gli attori inscenarono una battaglia e sopra iniziarono a volteggiare gli avvoltoi. A ostilità concluse, rimasero a bocca asciutta e per sfogare frustrazione e aggressività iniziarono ad attaccarsi tra loro fino a uccidersi. Mi è sempre parsa una potentissima metafora dei nostri tempi».
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Che tempi sono?
«Avere un'idea della contemporaneità oggi è più difficile di ieri: È tutto più indecifrabile, liquido, indistinto».
La politica l'ha sempre lasciata indifferente?
«Francamente sì. So che è un'arte e come tale pretende creatività, ma ne sono sempre stato alla larga».
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Lei ha avuto l'onore di due distinti Meridiani Mondadori a lei dedicati. La aspettano le celebrazioni per i suoi 95 anni a inizio ottobre. È pronto?
«Ma ormai credo che le celebrazioni per me non le voglia fare nessuno».
Perché dice così?
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«Per realismo. Mi sembra di essere già stato consumato, masticato e digerito».
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