Federico Fubini per L’Economia – Corriere della Sera
Non si era mai vista tanta (apparente) incoerenza come quella andata in scena esattamente sette giorni fa. Durante il fine settimana il governo italiano, il più indebitato in Europa dopo la Grecia, aveva fatto l' opposto di ciò che gli investitori potrebbero augurarsi da un Paese del genere: ha «mobilitato 17 miliardi di euro» (parola del premier Paolo Gentiloni) per un duplice salvataggio bancario che forza tutte le regole europee in materia.
BANCHE VENETE
Sulla Popolare di Vicenza e Veneto Banca non è scattato il temuto «bail-in», il coinvolgimento nelle perdite degli obbligazionisti ordinari e potenzialmente dei depositanti sopra i 100 mila euro. Sono stati azzerati solo i bond subordinati, i più esposti, e le azioni: il resto dell' operazione avviene con il passaggio a Intesa Sanpaolo delle parti buone delle due banche, grazie a un forte contributo dello Stato in capitale e garanzie.
Difficile immaginare qualcosa di più negativo per il debito pubblico, sulla carta. Eppure, per ora, i mercati non la pensano così. Lunedì scorso i differenziali sul premio di rischio fra titoli di Stato italiani e tedeschi, gli spread, si sono persino ristretti e i rendimenti dei titoli del Tesoro di Roma a 10 anni sono scesi da 1,70% a 1,66%. Come se gli investitori ritenessero positivo per la tenuta dei conti pubblici un salvataggio che «mobilita» 17 miliardi dei contribuenti.
gian maria gros pietro carlo messina giovanni bazoli
Naturalmente il mercato ha sempre ragione, finché non capisce che aveva preso un abbaglio. Anche lo spread fra la Germania e la Grecia dieci anni fa era più stretto di quello fra Parigi e Berlino di due mesi fa. Ma ricostruire la psicologia degli investitori nel caso delle banche venete getta comunque un po' di luce sull' operazione, perché la loro intelligenza collettiva racchiude sempre un grumo di verità del momento.
La conclusione, con ogni probabilità, non è che il Tesoro italiano abbia ragione o che qualcuno gli abbia creduto sul serio. Quasi nessuno lo ha fatto. A pagina 5 della «relazione tecnica» del decreto sulle banche venete del 25 giugno scorso si legge che lo Stato dovrebbe guadagnare un miliardo dall' intera operazione (prima di impegnare 300 milioni in «garanzia ad esito della due diligence » dei crediti passati a Intesa Sanpaolo). Difficile che finisca davvero così.
PADOAN
La certezza in quella relazione è che il totale degli «impegni» del governo, cioè degli esborsi di cassa, sarà di 10,6 miliardi. Quanto al «realizzo dell' attivo della liquidazione», la somma che lo Stato deve ricavare in gran parte dalla gestione dei crediti in default, l'«ipotesi» è fissata in incassi per 11,6 miliardi.
Questa prospettiva sembra molto incerta e poco probabile. Essa presuppone infatti che i commissari liquidatori riescano a vendere al loro pieno valore «partecipazioni e equity» (non meglio precisate) per 1,7 miliardi. Ma soprattutto, ipotizza che con la liquidazione delle due banche venete si recuperino 9,9 miliardi, il 55,6% del valore di un portafoglio di 17,8 miliardi di prestiti entrati in vari stadi di default. Su una quota di crediti da 2,8 miliardi (il 15,6% degli impieghi andati a male) i debitori in teoria dovrebbero tornare pienamente in pari; sulla parte restante invece, fra otto o nove anni il tasso di recupero del prestito iniziale dovrebbe essere in media del 46,9%, una volta preso possesso dei beni posti a garanzia dei crediti.
Vestager
Questo non sembra realistico. Le banche venete, la stessa Intesa e molte altre tendono a stimare su questo tipo di impieghi andati a male una quota di recuperi fra il 35% e il 40%. Investitori esteri come Elliott e Fortress si sono rifiutati per esempio di comprare i crediti cattivi di Monte dei Paschi, perché il prezzo offerto era di 21 centesimi per ogni euro di prestiti in default: i due fondi stimano una redditività lorda del 2% l' anno per un decennio, dunque un recupero totale di valore attorno al 40% che avrebbe potuto dare un minimo margine di guadagno solo comprando per meno di 21 cent al pezzo.
In sostanza le «ipotesi» del Tesoro sulla capacità di recuperare i fondi impegnati sulle banche venete appaiono deboli. Perché allora i mercati hanno risposto comprando, non vendendo, il debito italiano? Per una volta la loro reazione non appare illogica. A un tasso di recupero sui crediti in default del 40%, sempre alto ma più plausibile, il governo riavrebbe tre miliardi in meno rispetto ai 10,6 che avrà speso.
mps
Sembra dunque verosimile che alla fine lo Stato non registri un guadagno sull' operazione, ma una perdita. Alla fine l' aumento di debito pubblico per le due banche venete sarà verosimilmente di circa tre o quattro miliardi di euro (lo 0,15-0,2% del reddito nazionale). Ed è ovvio che gli investitori lo accolgano con favore.
In primo luogo, perché l' intervento rimuove un rischio sistemico di contagio finanziario e un ostacolo alla crescita che avrebbe complicato la sostenibilità del debito. Esso poi limita la perdita pubblica potenziale: il governo aveva già garantito debito delle due venete per dieci miliardi e un «bail-in» avrebbe trasformato all' istante quella somma in debito pubblico.
protesta dei risparmiatori davanti a bankitalia 10
Niente di tutto questo fa di questo intervento qualcosa di cui andare fieri in Italia. Non si doveva arrivare al punto da renderlo inevitabile. Ma la risposta positiva sui Btp rimane, per quando è dato sapere, perfettamente razionale.