Elvira Serra per il "Corriere della Sera"
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Superman ha smesso di volare il 28 novembre dello scorso anno. È cominciato tutto con una stanchezza formidabile. Poi i controlli di routine, la Tac alla testa. C'era una macchia. Tre giorni dopo, la risonanza magnetica riconosce il tumore. La biopsia gli dà nome e cognome: linfoma B al cervello.
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Per l'astronauta di Verano Brianza che ha trascorso in orbita 313 giorni, due ore e 36 minuti, comincia un nuovo viaggio, terrestre, durissimo: prima la chemioterapia, nel mezzo la riabilitazione per ricominciare a camminare, ad agosto l'autotrapianto di cellule staminali.
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Accanto a lui quattro medici, preziosissimi, con i loro team: Alessandro Perin e Antonio Silvani del Besta di Milano, Giuliano Zebellin dell'Auxologico Capitanio e Andrés José María Ferreri del San Raffaele.
Oggi alle 11 Paolo Nespoli ritorna a parlare in pubblico, all'Italian Tech Week di Torino. È dimagrito, cammina piano, continua a guardare avanti. Ha fiducia nel futuro.
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Ingegnere, cosa ha pensato quando il neurochirurgo le ha riferito l'esito della biopsia?
«Confesso di non aver pensato molto... So solo che il medico ha detto che c'erano buone probabilità di cura, non dico di guarigione. Quindi gli ho risposto: facciamo tutto quello che c'è da fare».
Ha mai temuto di non farcela?
«No, di non farcela mai. Però forse avevo sottovalutato la pesantezza delle cure».
Quali sono stati i momenti più difficili?
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«A parte quelli iniziali, dove capivo poco quello che stava succedendo, quando ne ho preso coscienza ho cominciato ad avere una serie di effetti collaterali legati alla terapia. Forse il momento più duro è stato l'isolamento di 23 giorni durante l'ultimo ricovero per l'autotrapianto, al San Raffaele».
Che effetto le ha fatto vedere trasformarsi il suo corpo?
«Ho sempre pensato che sarebbe stata una cosa passeggera e che bisognasse portare pazienza, che alla fine di questa cosa sarei tornato come prima. Ora mi rendo conto che forse non tornerò mai come prima, ma credo di avere buone chance di rimettermi a posto».
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Cosa le ha dato più forza in questi mesi?
«Ho cercato di applicare lo stesso metodo che applicavo prima con le cose più difficili, quando mi addestravo. Cioè non pensavo che mancava 100 per finire, ma vivevo un giorno alla volta, un pezzettino alla volta, in modo da non lasciarmi spaventare da quello che avevo ancora davanti».
Era spaventato?
«Spaventato forse no... Però certi giorni mi sarebbe piaciuto che fosse tutto più chiaro e preciso come una lista di addestramento ed esami, che quando ne fai uno poi passi al successivo. Questa certezza, con le cure, non l'ho mai avuta. È una questione medica, dove le certezze sono relative».
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Ha avuto paura di non vedere crescere i suoi figli?
«Il fatto che i figli crescono ti dà un senso del tempo che passa. A me piacerebbe vederli crescere, ma se non ci sarò so che potranno crescere bene, per cui l'importante è che loro possano farlo».
Mentre era all'ospedale ripensava alle sue missioni sulla Stazione spaziale internazionale?
«Sì e no, non era un pensiero fisso. Mi ritornavano in mente le cose della mia vita, la mia giovinezza, l'Esercito, l'università in America, l'attività di ingegnere all'Esa, la vita nella Stazione spaziale...».
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In queste ultime settimane, dei civili sono andati in orbita con Jeff Bezos e Elon Musk. Che effetto le fa sentirli chiamare astronauti?
«Ho sempre pensato che fosse un peccato precludere lo Spazio alla stragrande maggioranza delle persone sulla Terra e sono convinto che tutti dovrebbero provare questa esperienza dell'assenza di gravità e vedere il nostro bellissimo pianeta da lassù, perché sono cose che ti cambiano dentro.
Ma non diventi astronauta solo per aver superato la linea di Kármán. Se compri un volo Milano-New York non diventi automaticamente pilota del jumbo jet, resti un passeggero: per diventar pilota c'è una strada lunga da fare e lo stesso vale per l'astronauta. Quindi sarei contrario alla definizione applicata a chi supera una certa altezza, senza togliere niente ai civili che fanno questa scelta coraggiosa».
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E lei viaggerebbe con Bezos o con Musk?
«Io ho fatto esperienze sia sullo Shuttle che sullo Soyuz. Se mi venisse data qualsiasi opportunità con l'uno o con l'altro la prenderei senza battere ciglio, anzi, ringrazierei moltissimo».
Se le dico futuro?
«Io mi sento alla fine di un tunnel, guardo avanti e vedo la luce. Non mi aspetto di ritornare normale, ma con la maggior parte della capacità che avevo prima, per continuare a viaggiare, a fare le conferenze, a parlare con i ragazzi, a spronarli a fare l'impossibile. Vedo queste cose nel mio futuro».
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