Carlo Macrì per www.corriere.it
Francesco Benito Palaia
L’uomo che i camorristi avevano ingaggiato per recuperare il camion volato giù dal ponte Morandi con un carico di droga è il referente indiscusso della cosca Bellocco di Rosarno, una delle famiglie più agguerrite della ‘ndrangheta reggina.
Francesco Palaia, alias «Italiani», è infatti cognato di Umberto Bellocco, classe ’83, quest’ultimo nipote di Umberto Bellocco classe 1931, il patriarca cui si deve la nascita, nel carcere di Bari, della Sacra Corona Unita.
Palaia, arrestato mercoledì dai carabinieri nell’ambito dell’operazione «Blu notte» della direzione antimafia di Reggio Calabria, nonostante fosse ai domiciliari, per una precedente inchiesta sulle estorsioni commesse nei lavori al porto di Gioia Tauro, riceveva in casa ‘ndranghetisti di altre fazioni con i quali studiava le modalità illecite per «strozzare» commercianti e imprenditori della zona.
Il braccio operativo
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Essendo il braccio operativo del cognato, recluso a Lanciano, l’ultima decisione sul «da farsi» spettava comunque a Umberto Bellocco. Per poterlo coinvolgere nei summit, Palaia aveva escogitato il sistema della presenza da remoto.
Con la complicità ancora da chiarire di chi, Palaia era riuscito a far arrivare nel supercarcere abruzzese un telefonino cellulare così Umberto Bellocco poteva partecipare alle riunioni, dare ordini e indicare le strategie criminali cui la cosca doveva attenersi. Era sempre Palaia ad amministrare, sempre dai domiciliari, la gestione del telefono, comunicando al cognato, di volta in volta il numero di serie della ricaricabile e i codici.
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Le attività
«Italiani» aveva però anche la libertà di prendere qualche decisione. Allontanandosi dai domiciliari, si recava spesso nei cantieri, o a casa di imprenditori e con la «sola presenza o anche il cambiamento del tono della voce», riusciva a intimidirli.
Si presentava come una sorta di «amministratore delegato» di una società per azioni che garantiva la sicurezza e le attività delle imprese, con offerte vantaggiose, che altro non erano la richiesta del «pizzo».
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La meraviglia di chi ha captato le intercettazioni e le «ambientali» è stata l’accettazione da parte dei soggetti minacciati che sembrava fossero stati alleggeriti, con la presenza del Palaia di una incombenza alla quale non solo non volevano sottrarsi, ma in loro c’era quasi la soddisfazione di essere stati «omaggiati» dalla sua presenza in casa loro. E spesso, erano le stesse persone intimidite a far visita, ai domiciliari, al Palaia.
Le continue bonifiche
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Oltre all’attività estorsiva, Francesco Palaia aveva le mani in pasta anche nella gestione dei boschi, delle truffe, del traffico della droga. Temeva che i suoi movimenti o il linguaggio ‘ndranghetistico che utilizzava con la moglie Emanuela Bellocco e la figlia Martina, entrambe finite in carcere, fossero seguiti e captate dagli inquirenti. Ecco perché spesso era solito chiamare l’amico elettricista per bonificare la sua abitazione. Al tecnico chiedeva di smontare tutte le prese elettriche e mettere il naso su ogni attrezzo elettronico che potesse nascondere la microspia. Si era anche convinto di cambiare il router della comunicazione internet, sempre per precauzione. Tentativi falliti visto che dal 2019 e per due anni, l’abitazione di Francesco Palaia era osservata e ogni voce captata.
Le minacce
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E dall’ascolto si è potuto anche accertare le minacce che Francesco Palaia aveva riservato all’amministrazione comunale di Rosarno. Palaia si lamentava del fatto di aver ricevuto il pagamento di alcune cartelle esattoriali relative al pagamento dell’acqua e spazzatura, nonostante in quei periodi fosse in galera.
L’interlocuzione avuta con il responsabile dell’Ufficio comunale è stata chiaramente minacciosa. All’impiegato che cercava di spiegargli che il pagamento era comunque dovuto, Palaia rispondeva: «Io vorrei pagarli se tu mi dai una risposta plausibile, prima che vengo con un’accetta al Comune». Lo stesso linguaggio Francesco Palaia l’ha utilizzato nei confronti di un dentista di Cosenza, per ottenere certificati falsi che gli consentivano di spostarsi da casa legalmente, per poi incontrare alcuni affiliati del clan Muto di Cetraro.
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I falsi certificati
«Italiani» grazie all’autorizzazione da parte del Tribunale di sorveglianza si allontanava dai domiciliari esibendo certificati medici redatti non a seguito di visite specialistiche o, in base ad effettive esigenze terapeutiche ma, su richiesta telefonica dello stesso Palaia che «ordinava» la compilazione al proprio medico curante, non lesinando esplicite minacce. E qualora il professionista si rifiutava, Palaia rispondeva: «Eh, ti devo mandare qualche altro messaggio di minaccia o ti devo mandare qualcuno allo studio?».
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