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    FULL MONTI C’HA LASCIATO IN MUTANDE - DOMANDA: “SI POTREBBE FARE OGGI, NEL MEZZO DI UNA CRISI FEROCE E UMILIANTE, TRA SUICIDI CRESCENTI E PROTESTE RABBIOSE, UN FILM COME ‘FULL MONTY’?” - LA RISPOSTA DEI PRODUTTORI: “METALMECCANICI DISOCCUPATI CHE SI SPOGLIANO? PROBABILMENTE AVREI STORTO IL NASO” - “L’OPERAIO, NELL’IMMAGINARIO COLLETTIVO, NON ESISTE PIÙ. LA LOTTA DI CLASSE SEMBRA FAR PARTE DI UN BAGAGLIO ANNI ‘70”…


     
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    MARIO MONTIMARIO MONTI

    Michele Anselmi per "il Secolo XIX"

    Domanda: si potrebbe fare oggi, nel mezzo di una crisi feroce e umiliante, tra suicidi crescenti e proteste rabbiose, un film come "Full Monty"? Martedì sera la straordinaria commedia di Peter Cattaneo, inglese ma prodotta dall'italiano Uberto Pasolini, è passata su Rete4, a tarda ora.

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    L'hanno vista in pochi, appena 481 mila spettatori, fors'anche perché la ricordano in molti. Quando uscì, nel marzo 1998, totalizzò da noi l'equivalente di 10 milioni di euro. Un record per una storia operaia su sei disoccupati di Sheffield, ex capitale britannica dell'acciaio, che si improvvisano spogliarellisti per racimolare qualche sterlina e sfuggire alla depressione.

    Brutti, buffi e avviliti, come tanti di noi oggi nell'Italia "full Monti", hanno bisogno di credere in qualcosa: tanto basta per vincere la paura e buttarsi nudi in pasto a 400 donne urlanti al suono di "You Can Leave Your Hat On".

    BENVENUTI AL SUDBENVENUTI AL SUD

    In questi anni anche il cinema italiano ha provato a raccontare la condizione operaia, da "Il posto dell'anima" a "La signorina Effe" passando per "Liberi", "Senza arte né parte" e il recente "La nostra vita". Non solo quella, in verità: la precarietà giovanile con "Tutta la vita davanti", la disoccupazione borghese con "Giorni e nuvole". Ma niente di paragonabile all'impatto di "Full Monty", grazie al mix perfetto di romanzo proletario e situazioni comiche, con le furbizie del caso e la musica azzeccata a fare il resto.

    Eppure il pubblico italiano non è insensibile ai temi della vita quotidiana, magari vorrebbe sorridere e commuoversi allo stesso tempo, senza annoiarsi di fronte a storie corali esangui, meccaniche, piene di trentenni scemi presi solo da schermaglie amorose.

    GHERARDO COLOMBO ALLA PRIMA DI ROMANZO DI UNA STRAGE jpegGHERARDO COLOMBO ALLA PRIMA DI ROMANZO DI UNA STRAGE jpeg

    «Esattamente. La crisi, in chiave di cinema popolare e non di nicchia, magari bellissimo come nei film dei Dardenne per intenderci, si può raccontare solo con lo strumento della commedia. Andare giù per dritto è rischioso, la straniamento comico umanizza e crea condivisione» ragiona Riccardo Tozzi, produttore di "Benvenuti al Sud" e "Romanzo di una strage". «Mi spiego meglio. La disoccupazione è un problema gigantesco, ma anche lontano. Sei operai senza lavoro che fanno lo strip-tease invece li senti vicini. Lo sfondo può essere anche tragico, ma lo sguardo verso i personaggi umano, caldo, tenero. In fondo è la cifra vincente di "Quasi amici" oggi e di "Full Monty" quattordici anni fa».

    Tozzi riconosce che i nostri cineasti poco praticano questo combinato estetico-espressivo. «Di solito prevale l'elemento realistico, troppo aspro, o quello sarcastico, troppo acido. Manca la morbidezza affettuosa».

    Chiediamo: se un regista esordiente avesse proposto a Tozzi una commedia su sei operai della Fincantieri di Genova che diventano "strippers", cosa avrebbe risposto? «Non lo so. Forse avrei cercato di capire meglio. Di sicuro, dopo aver visto "Full Monty" ho provato una purissima invidia professionale. Basterebbe la scena in cui quei poveracci si mettono a ballare all'ufficio di collocamento: vale tutto il film, fa ridere e piangere».

    Sergio Cofferati - Copyright PizziSergio Cofferati - Copyright Pizzi FAVINO E MASTANDREA IN ROMANZO DI UNA STRAGEFAVINO E MASTANDREA IN ROMANZO DI UNA STRAGE

    Concorda la collega Donatella Botti, certo non incline a produrre commedie, da "L'aria salata" a "La signorina Effe". «Metalmeccanici disoccupati che si spogliano? Probabilmente avrei storto il naso di fronte a un'idea del genere, chissà. Però in "Full Monty" i personaggi erano veri, vivi, ti sentivi sprofondato dentro quel mondo, complice.

    Oggi chi saprebbe farlo in Italia?». Quasi nessuno. «Non bastasse, l'operaio, nell'immaginario collettivo italiano, non esiste più. La lotta di classe sembra far parte di un bagaglio anni Settanta, ideologico, remoto».

    In realtà, nell'aria si respira disperazione. I suicidi sono solo le punte strazianti di un enorme iceberg emergente. Sergio Cofferati, oggi europarlamentare, nel marzo 1998 attribuì, da segretario della Cgil, il "Premio Cipputi" a "Full Monty" nel corso di un'anteprima oggi impensabile, alla quale partecipò mezzo governo di centrosinistra, incluso il futuro presidente Ciampi. «Vede, il lavoro in Italia soffre di un deficit di visibilità. Il suo valore sociale ha smesso di essere narrato dalla cultura. In tempi lontani succedeva, poi è accaduta una sorta di metamorfosi: i lavoratori sono diventati consumatori. Un elemento gravemente distorsivo».

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    Cofferati sa bene che non è facile girare film a forte tasso civile. «Non chiediamo "Tempi moderni". Ma bisogna provarci. Temi sociali anche angoscianti, non parlo del pestaggio alla Diaz che ovviamente richiede un tono oggettivo, si possano raccontare al cinema con leggerezza, trasformando la lettura del dolore secondo i canoni della commedia. "Full Monty" ha il pregio di sorridere su una condizione agra dell'esistenza: lancia un messaggio di speranza, basta con la classe operaia eternamente sconfitta, sbriciola qualche luogo comune sull'universo proletario, rovescia perfino i ruoli maschili e femminili». Proprio così.

     

     

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