Gabriele Romagnoli per “La Stampa”
CLAUDIO CAMPITI
Questa non è una difesa di Claudio Campiti, l'assassino del condominio (ci penseranno i suoi avvocati). Questo è un tentativo di spiegare che cosa può succedere nella geometria di un'esistenza quando la linea retta su cui si camminava si spezza, eppure si va avanti, sul vuoto. Più che equilibristi impossibili, morti viventi.
«Zombie!», direbbe un bambino. Claudio Campiti non l'aveva più, il suo bambino. L'aveva perso dieci anni fa, appena quattordicenne. Un incidente sullo slittino, in mezzo a nevi lontane.
Voleva dei responsabili. Aveva sostituito la passione con l'ossessione. Fatto causa. Vinto un processo. Ottenuto un risarcimento. E ancora. Contro un uomo, altri due, tutti quanti. Sono vicende per cui si può perdere la ragione. O la fede. O entrambe.
LA CASA DOVE VIVEVA CLAUDIO CAMPITI AL CONSORZIO VALLE VERDE
Si fa spesso notare che nel nostro vocabolario non esiste una parola per definire chi ha perduto un figlio. Un tentativo nominalista di esorcizzare l'eventualità. Se non è dicibile non è possibile. Eppure accade. Ci sono lingue poco parlate in cui quella parola esiste. Mondi in cui la morte violenta non è occasionale. Ti aspetta al varco tutte le volte in cui si spegne una luce.
Ogni sofferenza è riproducibile. Ogni vita lo diventa. Da questa parte del mondo no. È trauma. Ostacolo non rimuovibile. Eppure ti lascia vivo.
IL FIGLIO DI CLAUDIO CAMPITI
Dicono anche: «Quel che non ammazza, ingrassa». E non è una conquista. Si diventa obesi e indifferenti. Farsi ammazzare da qualcosa mentre ancora si respira, morire dentro, è un segno di umanità. Significa riconoscere un valore superiore alla nostra vita. Proclamare: senza, non ha più senso. Mettersi a correre.
Chiudersi in clausura. Frequentare un poligono come fosse un bar. Perdere amici.
Trovare nemici. Farlo con estrema facilità: possono esserlo tutti, perché camminano su una linea retta che s' incrina ma non si spezza, per mano ai loro figli, premurosi.
Nei primi diciotto anni la parola che un genitore dice più spesso a un figlio non è «Tesoro» è «Attento!». Non può impedire l'imprevedibile. Fermare niente. Dopo, di chi è veramente la colpa? Si attacca chiunque per alzare rumore, coprire la voce interna che dice: «È colpa mia». Che dice: «Avrei dovuto...».
LA CASA DOVE VIVEVA CLAUDIO CAMPITI
Segue un elenco interminabile di azioni. Di sliding doors contro cui sbattere la faccia.
Il tempo, il tempo non ripara niente. Più scorre e più allontana dall'ultimo momento di felicità, che fa male ricordare. I genitori che perdono un figlio quasi sempre si separano. Perché il loro legame più forte diventa quello più intollerabile. Non fuggono dalla vita di prima, è quella a fuggire da loro.
Lo racconta Richard Ford in Sportswriter, quando fa incontrare davanti alla tomba del figlio due genitori così, divorziati, che ricordano la vita di prima: «Pagavamo i conti, facevamo la spesa, andavamo al cinema, compravamo automobili e macchine fotografiche, stipulavamo assicurazioni, cucinavamo all'aperto, andavamo a feste, visitavamo scuole e ci volevamo bene nel modo dolce e guardingo degli adulti. Insomma, la solita vita che non merita applausi, la vita normale di tutti noi».
POLIGONO DI TIRO A SEGNO NAZIONALE VIALE VIA TOR DI QUINTO ROMA
E dopo, invece? Il protagonista dice di sé: «Ho affrontato il rimpianto. Evitato la rovina». Claudio Campiti non ce l'ha fatta. Forse non l'ha voluto. A volte la rovina è percepita come una necessità, l'unica forma di espiazione possibile per essere sopravvissuti, per non aver protetto anche quello che era impossibile immaginare. Il rimpianto dilaga. Come evitarlo? Non esistono certezze, solo opinioni, manuali, pareri alla televisione. In America organizzano gruppi per persone che hanno vissuto esperienze simili. Per alcuni è come entrare in quell'attrazione del luna park dove ci si moltiplica in un gioco di specchi e infine ci si perde.
IL POST SUL BLOG DI CLAUDIO CAMPITI 2
Nel film australiano Lantana il padre della bambina scomparsa va ogni sera sul luogo dell'incidente e sosta, da solo, in auto. La moglie psicologa lo rimprovera: «Anche io ho perso una figlia!». «Sì, ma tu ci hai scritto un libro». Non ho mai letto Paula, di Isabel Allende. Né altri testi del genere. Ho letto invece Leonard Cohen, sottolineato la riga in cui ha scritto che a volte l'arte è una calcolata manifestazione di sofferenza. E questo, lo dovessi mai fare, tu questo figlia non me lo perdonare (ritornello di Roberto Vecchioni). Dalla vita che non merita applausi a quella che attira il generale sdegno il passo è breve, ma è un passo nel vuoto.
La linea si è spezzata, è scattato un tirante e ha rotto il cavo. È successo per strada, su una pista da sci, a scuola. È stato uno scherzo, non sempre del destino, un atto di follia, una fatalità. Se ricorrono a quest' ultima espressione si diventa matti. Fatalità, che tra otto miliardi di persone proprio quel bambino, quella ragazza si trovasse lì e ora? Non esiste, qualcuno deve averne la responsabilità. E se non qualcuno, allora tutti.
LA PISTOLA USATA DA CLAUDIO CAMPITI PER LA STRAGE ALLA RIUNIONE DI CONDOMINIO A FIDENE
Come si sfugge al desiderio di vendetta? Chi non ha mai visto il film Un borghese piccolo piccolo, in cui il padre interpretato da Alberto Sordi (uno di quelli la cui vita non merita applausi) si trasforma in assassino del rapinatore che ha incidentalmente colpito suo figlio (Vincenzo Crocitti) durante una sparatoria con la polizia? Chi non ha provato un brivido di identificazione? Claudio Campiti non è quel borghese, ha stroncato le vite di quattro persone non legate alla morte del suo ragazzo. Non ha cause di giustificazione nel codice penale né nel dibattito civile. Eppure anche i giurati che inevitabilmente lo condanneranno penseranno, prima di farlo, alla differenza, sottile come un filo, tra quel che si è e quel che si diventa.
poligono di tiro tor di quinto poligono di tiro tor di quinto sequestrato