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Antonio Barillà per "la Stampa" - Estratti
Ha giocato con Platini, Paolorossi, Maldini e Baresi, ha visto l'alba di Del Piero e il tramonto di Valderrama, è stato allenato da Trapattoni e Sacchi, ha vinto due scudetti alla Juve e uno a Verona, ha riportato in Serie A Lazio e Padova. Giuseppe Galderisi ha mille storie da raccontare, le prime ambientate in Emilia.
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«Papà e mamma, quando avevo sei mesi, si trasferirono da Salerno a Trecasali, vicino a Parma. Ho cominciato lì e la mia squadra vinceva sempre perché dribblavo tutti e andavo in porta, finché Pietro Pellegrini, l'allenatore, non mi lasciò fuori in una partita importante: pensarono fosse impazzito, lo fece perché imparassi che il calcio non è sport individuale. Gli amichetti mi chiamavano Ciccillo, come un personaggio di Totò, perché ero agile e avevo la pelle scura. A molti sono tuttora legato: uno, Andrea Magnani, l'ho appena perso».
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«Venne Vycpálek a vederci sul campo affacciato sul mare: chi mandava fuori il pallone, andava a riprenderlo con una barchetta. Con lui c'era un nipote appena arrivato da Praga, Zeman: ci selezionarono in otto per un provino a Torino. Perdemmo male al Combi contro una giovanile bianconera e non credevo di avere speranze, invece Campione ci riunì in hotel: "Galderisi preso, Mari e Pecoraro opzionati"».
Torino diventò la sua città...
«Villar Perosa, in realtà: quaranta ragazzi da tutta Italia in un college. Avevo tredici anni e mi mancava la famiglia, ma la passione e i sogni erano più forti. Cominciai negli Allievi B, mi portarono subito negli Allievi A, a 15 anni ero in Primavera e cominciai a bazzicare la prima squadra, accanto alle figurine che collezionavo a Salerno. C'erano già degli striscioni per me, uno diceva Nanu Brasil: il soprannome l'avevo ereditato da Della Monica».
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Una crescita continua...
«Calcistica e umana. Nei riscaldamenti palleggiavo con Furino ed ero più concentrato che in partita perché se sbagliavo mi correva dietro. E Trapattoni mi rimproverava anche se non stavo composto a tavola. Al venerdì Zoff e Scirea andavano al ristorante con le mogli e mi invitavano».
Debuttò in prima squadra nella stagione 1980-1981.
«In Coppa Italia, a Udine. Giocai anche una volta in campionato a Perugia e segnai il primo gol al torneo di Capodanno contro il Como. Nella stagione successiva, 16 partite e 6 reti: Trap mi ha detto più volte che se non avesse puntato su di me, non avremmo vinto lo scudetto. Con l'Udinese si fece male Tardelli, entrai e decisi la partita, seguirono una doppietta al Catanzaro e l'apoteosi con il Milan. Ero appena arrivato a Viareggio con la Primavera, Trap telefonò in albergo e ripresi il treno: 3-2, tre reti mie».
Rimase ancora un anno...
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«Davanti avevo Rossi, con cui dividevo la camera, Bettega, Boniek e Platini: giusto giocassi poco però volevo continuità e Boniperti, che mi voleva bene come un figlio, mi consigliò il prestito a Verona. Andai via consolato dalla Coppa Italia ma scosso dalle lacrime di grandi campioni ad Atene dopo la finale di Coppa Campioni persa con l'Amburgo, convinto che se avessimo giocato altre 2000 volte avremmo sempre vinto, e ripartii in maglia gialloblù. Il primo giorno di ritiro, a Cavalese, Bagnoli scrisse la formazione sulla lavagna e in attacco mise Jordan e Iorio: chiamai Boniperti e chiesi di andare ad Avellino, mi rispose di stare lì e avere fiducia».
Ottimo consiglio...
«Anni meravigliosi culminati nello scudetto quando in una squadra già forte furono innestati Briegel ed Elkjaer. Il tedesco lo conoscevamo bene, il danese no, così, saputo dell'acquisto, lo studiammo in tv all'Europeo: segnò a Jugoslavia e Belgio, scoprimmo un fenomeno. Eravamo un gruppo unito, ci divertivamo e ancora oggi siamo legatissimi. In quel campionato c'erano i migliori stranieri - Zico, Socrates, Maradona, Passarella, Platini , ma il nostro calcio era bello: ci applaudivano anche fuori casa».
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Si aprirono le porte azzurre...
«Bearzot mi portò ai Mondiali messicani: c'erano molti campioni dell'82 e qualche nuova leva, tra cui io e De Napoli. Quando nel ritiro di Puebla ci convocò entrambi, pensai a un rimprovero: "Nando, hai combinato qualcosa?" chiesi preoccupato al mio compagno. Invece ci spiegò che saremmo stati titolari, io al posto di Rossi e lui di Tardelli, due icone. Uscimmo agli ottavi, non si accese la luce, ma resta un altro sogno di bambino realizzato».
Dal Verona al Milan....
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«Fui uno dei primi acquisti di Berlusconi: ho vissuto momenti bellissimi, segnando anche nel derby, ma la stagione non fu semplice, ci fu anche l'esonero di Liedholm, così a giugno scelsi di andare in prestito alla Lazio in B. Feci un solo gol, ma fummo promossi e diedi tutto: i tifosi l'hanno capito e mi vogliono bene ancora oggi. Tornai in rossonero, a Sacchi piacevo ma avevo davanti Virdis, scelsi il Verona che era uno squadrone - Troglio, Caniggia, Pioli... - ma ci salvammo in extremis tra i problemi societari».
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Diventò bandiera a Padova...
«Andai a novembre, dopo aver sperato di rimanere al Milan: mi convinse Aggradi e non mi pesò scendere in B. Volevamo la promozione, l'abbiamo mancata più volte per un soffio e infine raggiunta: la città aspettava da 32 anni. Intanto avevo detto no al Trap che mi aveva chiamato all'Inter, non potevo lasciare la squadra in B: mi presero per matto, ma certe cose che non hanno prezzo, il Padova ha avuto fior di campioni, ma i tifosi hanno eletto me calciatore del secolo».
Ha tenuto a battesimo Del Piero...
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«Dopo aver saltato due uomini, gli diedi il pallone del primo gol tra i professionisti. Facile accorgersi che era un fenomeno: quando Boniperti e Trapattoni chiesero il mio parere, risposi di prenderlo subito».
Da lì in America...
«Mi chiamò Lalas, compagno a Padova: l'impatto con i New England Revolution a Boston fu complicato anche perché venivo da un infortunio, traslocai a Tampa, in Florida, e fu tutta un'altra storia. Giocavo con Valderrama, uno dei più grandi: gli davo la palla e scattavo, ovunque andassi sapevo che la restituiva. In Mls ho iniziato la carriera di allenatore».
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