Tony Damascelli per “il Giornale”
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Gatta ci cova. Censurato. Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino. Cancellato. Tagliare la testa al toro. Ignobile. Febbre da cavallo. Abolita. Capro espiatorio. Non ne parliamo più. Avere un cervello di gallina. Detestabile. Gallina vecchia fa buon brodo. Riprovevole. Avere la pelle d' oca. Mai sia.
Tutto questo proverbificio salta in aria perché gli animalisti, che sono anime candide e pie, hanno deciso che sia ora di finirla con l' uso e l' abuso di frasi che coinvolgano i nostri amici a quattro e due zampe. Tutto è nato e deve morire con lo storico augurio In bocca al lupo che, dalle nostre parti, trova immediata risposta conclusiva «crepi» non proprio benevolente.
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Ora nell' università gallese di Swansea sono stati effettuati studi linguistici e filosofici così da indurre la bionda ricercatrice Shareena Hamzah a sostenere una tesi ardita: grazie alla popolarità, sempre crescente, del veganismo, molte, se non tutte, le frasi che riguardano la carne, nella fattispecie, degli animali, vanno e saranno abolite nel linguaggio comune, perché vecchie, datate, fuori moda e contro la natura stessa.
Dobbiamo rinunciare a usare quadrupedi e bipedi per i nostri sfoghi, penso che anche le fiabe della nostra infanzia andranno incontro a una rilettura, basta con il lupo che si mangia la nonna in attesa di Cappuccettto rosso, basta con la balena di Pinocchio, basta con i tre porcellini, basta con Topolino e Paperino, tutta roba che sfiora la crudeltà nei confronti di una popolazione fragile, che non può nemmeno protestare non avendo la facoltà della parola.
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Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano”
Così come a volte occorre difendere l' ammalato dal medico, ogni tanto bisogna difendere gli animali dagli animalisti.
Intendiamo quelle frange estremistiche e ignoranti che, presumendo di fare il bene degli animali, ne falsificano la storia e, con la loro spocchia, li rendono antipatici. In Gran Bretagna l' associazione "People for the ethical treatment of animals", in breve Peta, se l' è presa con quei modi di dire popolari in cui si nominano gli animali.
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Anche l' italiano ne fa uso, ricordiamo ad esempio «in bocca al lupo», «menare il can per l' aia», o «prendere due uccelli con una fava» (che in inglese è più cruento: «kill two birds with one stone», cioè uccidere due uccelli con una pietra). Secondo gli attivisti della Peta, «queste frasi possono sembrare innocue ma in realtà mandano un messaggio sbagliato, perché rafforzano l' idea di un rapporto con gli animali basato su violenze e abusi. Insegnare agli studenti a usare un linguaggio non crudele serve a promuovere una relazione positiva tra tutti gli esseri viventi».
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Da amanti degli animali, troviamo questa epurazione del linguaggio «animalmente scorretto» un po' ridicola. I modi di dire, o frasi idiomatiche, si pronunciano infatti dimenticandosi completamente del loro significato letterale. Se durante una riunione di lavoro diciamo a qualcuno «stai menando il can per l' aia» non visualizziamo né il cane né l' aia, che peraltro molti non sanno più nemmeno che cosa sia (è il terreno accanto a edifici rurali, spianato e assodato, spesso ammattonato o coperto di cemento, dove si mettono a essiccare cereali e altri prodotti agricoli).
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Quanto a quel «menare», si tranquillizzino tutti gli animalisti troppo suscettibili: non vuol dire picchiare, ma condurre, proprio come «menare per il naso» non significa dare un pugno sul naso ma prendere per i fondelli.
L'ORIGINE DEL DETTO L' origine del detto, poi, in tutte le sue interpretazioni, non è affatto un esempio di "rapporto con gli animali basato su violenze e abusi". Il cane è sempre stato un compagno fedele e prezioso dell' uomo nella civiltà contadina. Menare il can per l' aia secondo alcuni deriva dall' uso di far calpestare il grano posto nell' aia dagli animali pesanti della fattoria.
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Condurre quindi il cane per l' aia non serviva allo scopo, da qui il significato di tirarla per le lunghe, perdere tempo. Secondo altri il detto ha origine dal fatto che il cane ha bisogno di spazi ampi e aperti per fare i suoi bisogni, fiutare, correre, e quindi tenerlo nell' aia è una pratica inutile. In entrambi i casi la critica quindi non è mossa all' animale, ma al padrone che ne ignora la vera natura.
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Da questo semplice esempio comprendiamo che, lungi dall' essere contro gli animali, questi detti svelano spesso qual era il genuino rapporto di collaborazione che i nostri avi, molto più di noi, avevano con gli animali.
Prendiamo ancora il caso di «in bocca al lupo». È vero, molte etimologie (tra cui quella proposta dall' autorevole Accademia della Crusca) citano il lupo come modello di animale ferocissimo, e dicono che «in bocca al lupo» in segno di augurio è una classica formula apotropaica, dove nominando un male in realtà lo si esorcizza, così come si dice che augurare o sognare la morte di qualcuno gli allunghi la vita.
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Però è possibile che coloro che coniarono il detto, ne sapessero sugli animali più dei dotti della Crusca. E che, come insegna l' etologia, vedessero come la lupa prendesse i suoi cuccioli in bocca, per spostarli e metterli al sicuro nelle tane. Il detto quindi farebbe riferimento non al rischio di essere divorati, ma alle proverbiali cure che la lupa dedica ai suoi cuccioli, come mostrerebbe anche il mito di Romolo e Remo, allattati dalla lupa.
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E noi dovremmo impedirci di dire un' espressione bella e poetica come "in bocca al lupo" per far contenti alcuni animalisti dogmatici, abituati a vedere nel mondo naturale sempre e solo crudeltà e uccisioni, cioè quelle attività di cui l' uomo, più di ogni altro animale, è specialista? Possiamo essere più comprensivi verso gli animalisti quando, invece di "grazie", sentiamo rispondere "crepi" (il lupo).
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Anche in questo caso la frase non è che un modo di dire scaramantico, ed è assurdo tacciare di crudeltà verso gli animali chi la pronuncia. Tuttavia è una risposta che ci suona sgradevole proprio perché dà per scontato che all' origine dell' augurio ci fosse il terrore verso il lupo visto come un nemico mortale dell' uomo, e non, come abbiamo spiegato, il suo comportamento di protezione verso la prole.
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