Valeria D'Autilia per "La Stampa"
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«Abbiamo paura di perdere anche questo pezzo di pane». Paola trova il coraggio di raccontare quel lavoro per pochi euro, da centralinista in un sottoscala a Crispiano, in provincia di Taranto. Come lei, lì dentro, ci sono altre 19 persone. «Sottopagati, senza alcun rispetto dei contratti e della sicurezza. Ma è la nostra unica entrata».
È combattuta, decide di rivolgersi alla Cgil. «Però non possiamo rischiare che il call center chiuda». Quei soldi servono. Circa 400-500 euro al mese a cui è impossibile rinunciare. Da contratto nazionale, dovrebbero essere 7.85 euro lordi l'ora, invece netti sono meno di 4. Ma da queste parti, trovare un'occupazione non è facile.
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Da un lato, la consapevolezza di essere sfruttate, dall'altro la paura di perdere il posto. Al punto da tirarsi indietro, come nel caso di Alessandra: «Mi dispiace, non voglio procurare danni a nessuno. Lasciate stare. Adesso ho un piccolo lavoro a progetto, poi non avrei più nulla».
Prima di questo, altre esperienze nel settore. Sa che le condizioni non sono quelle previste per legge e ci si deve adattare. Sino a difendere un impiego mal pagato. «Questo è schiavismo», attacca Andrea Lumino, segretario della locale Slc Cgil. È stato lui a raccogliere alcune segnalazioni e denunciare tutto all'ispettorato del lavoro.
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«Siamo di fronte a un call center irregolare che opera per conto del colosso Tim, in una saracinesca, non rispettando l'accordo nazionale sui compensi né la normativa anti-Covid. È grave che la più grande azienda di telecomunicazione del Paese abbia affidato la sua attività a un intermediario che ha cambiato nome diverse volte».
Un comparto difficile nel quale le regole ci sono, ma molti non le rispettano. Call center che nascono da un giorno all'altro e chiudono con altrettanta rapidità. Spesso è impossibile identificarli. Investimenti bassissimi per un giro d'affari enorme, con grossi committenti pubblici e privati.
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In tutta la Puglia, sono 35 mila i lavoratori impiegati in imprese che non risultano neppure censite dai registri delle Camere di commercio. All'esterno della sede nessuna targa: qui si lavorava in un ambiente unico, uno stanzone con una sola finestra a livello della strada. Quasi tutte donne, tra i 25 e i 30 anni. Così da circa un anno e mezzo. Persino le pause erano a discrezione del coordinatore.
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La normativa per i terminalisti prevede uno stop di 15 minuti ogni 2 ore. «Invece non c'erano regole» ha raccontato una di loro. Lumino lancia l'allarme: «La crisi sociale ed economica sta schiacciando ancora di più i lavoratori che accettano condizioni aberranti pur di andare avanti». Lui stesso, prima di denunciare, ha contattato altri call center per un eventuale assorbimento di questi venti lavoratori. Il rischio, dopo la segnalazione alle autorità, era che rimanessero per strada.
«Sono stati loro stessi a chiedermi innanzitutto di verificare se ci fossero delle possibilità altrove, altrimenti non avrebbero proseguito neppure con la denuncia. Questo è il dramma». Poi la richiesta a Tim: «Faccia rimanere quella commessa a Taranto, ma in un'azienda regolare, senza girarsi dall'altra parte».
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Appena tre settimane fa, a Statte, sempre nel Tarantino, un'altra segnalazione: 3 euro l'ora per lavorare da casa, con a carico anche le spese telefoniche. «Parliamo di realtà invisibili e incontrollabili che, sfruttando la fame della gente, non rispettano la legge. Qui il settore è forte in espansione: ora il rischio è che, utilizzando lo smart working, sarà sempre più difficile smascherare queste situazioni di sfruttamento».