Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera”
KRISTIAN GHEDINA 5
Kristian Ghedina - «mi raccomando, con la kappa» - sembra un vecchio esploratore dell' Africa, di quelli sopravvissuti ai leoni e agli indigeni: gli manca metà dell' orecchio destro, ha il naso rotto in tre punti, innumerevoli fratture alle costole e alle vertebre mai ricomposte del tutto...
Kristian, lei non ha mai avuto paura?
«La paura l' ho sempre cercata. Da bambino guardavo Tarzan, poi salivo sugli abeti di fronte a casa, alti dieci metri, e mi lasciavo cadere di ramo in ramo. A 14 anni, siccome papà non mi comprava la moto, me la sono costruita saldando pezzi trovati nella discarica, e l' ho collaudata nella pista olimpica del bob: facevo gara con un amico a chi prendeva le curve paraboliche più in alto. Sul bob, quello vero, andavo nei boschi: sono finito contro un albero, e mi sono rotto il naso per la prima volta».
Lei è stato il più grande discesista italiano, il primo a vincere la Streif di Kitzbuhel. Ma ama lo sci o la velocità?
«Amo il rischio. In moto. In macchina. E ovviamente in montagna».
A Wengen fece il record della pista, che ancora resiste, e superò i 156 all' ora. Poi al traguardo franò addosso alle recinzioni, in mezzo al pubblico.
KRISTIAN GHEDINA 5
«Lì mi ruppi la prima vertebra, ma lo scoprii anni dopo. Rifiutai di fare le radiografie, nel timore che mi fermassero. Provai anche il chilometro lanciato, ho raggiunto i 218 chilometri all' ora, ma mi sono annoiato».
Perché?
«Tutto dritto. Nessun pericolo».
A 20 anni era sul podio di Coppa del Mondo.
«Terzo in Val Gardena. Secondo a Schladming. Esordio a Kitzbuhel: si parte praticamente in verticale, tant' è ripido; curva a destra, curva a sinistra, salto della Mausefalle che vuol dire trappola per topi, compressione, tornante a sinistra, tornante a destra, con pendenza del 75% per cui se lasci correre finisci contro le reti, se spigoli troppo perdi velocità per il piano... finalmente la diagonale, vedo già il traguardo, però mi si stacca uno sci. Finisco piedi in avanti contro il cavo d' acciaio del telone: due costole rotte, commozione cerebrale. Mi chiedevo: dove sono?».
Due settimane dopo vinse la prima gara di Coppa, qui a Cortina.
GHEDINA 8
«La seconda emozione più grande della mia vita. Venne tutto il paese sotto casa, c' era ancora il nonno, mi affacciai sul poggiolo, pareva il carnevale di Rio, mi portarono in trionfo su una Porsche decappottabile. Dissi a papà che ne volevo una pure io».
E lui?
«Rispose che mi sarei schiantato. Erwin Stricker, il matto della valanga azzurra, assentì: "Kristian non si farà mai davvero male con gli sci, è troppo bravo. Ma siccome anche lui è matto, si farà male in macchina". Alla fine trovammo un compromesso: niente Porsche, niente Uno turbo che era il mio sogno, ma una Passat bella pesante».
E si schiantò l' anno dopo, in autostrada.
«Non si è mai capito come. Forse scoppiò una gomma, forse un colpo di sonno. Mi ruppi la scatola cranica, uno zigomo, i polsi, la clavicola, la scapola, altre due costole, e il naso per la seconda volta. Gli sci che portavo in macchina mi mozzarono un pezzo d' orecchio».
GOGGIA GHEDINA
Lei finì in coma.
«Prima sembrava che dovessi morire, poi che non potessi più sciare, quindi che non potessi più gareggiare. Provai a rimettermi in bicicletta; caddi subito. L' inverno dopo ero di nuovo in pista».
Ma per tre anni non fu più lei.
«Mi avevano avvisato. Il cervello è come un computer: ha bisogno di tempo per resettarsi, recuperare il senso dell' equilibrio. Così sono tornato a vincere».
E a rompersi.
«Il menisco per passare sotto un tornello, il naso per la terza volta, un piede facendo footing nel bosco alla vigilia dei Mondiali. L' infortunio peggiore è stato nel 2002 in Argentina. Tento un salto mortale con gli sci, cado male, sento crac: tre vertebre rotte. Quella volta pensai davvero di finire sulla sedia a rotelle.
Mi dissi: "Ma quanto sei mona...". Avevo una fidanzata argentina esigentissima, Fabiana. Feci lo stesso il mio dovere, urlando. Lei si convinse di essere una maga del sesso; ma le mie erano urla di dolore. L' anno dopo sono tornato, e lei aveva un bimbo piccolo...».
KRISTIAN GHEDINA 5
Figlio suo?
«Mi ha assicurato di no».
Kristian, lei correva anche in moto.
«Formula Supermotard. Mi piaceva un sacco. Ma dopo tre fratture - piede, polso, clavicola - la federazione dello sci mi fermò».
Questo non le impedì nel 2004 di fare la spaccata nel salto finale della Streif. Una scena di culto su YouTube.
«L' avevo fatta in prova. Mio cugino mi prese in giro: "Vediamo se sei capace pure in gara...". Non potevo sottrarmi».
Aveva il miglior tempo, arrivò sesto. Si giocò la vittoria.
«Ma no... in ogni caso, vuol mettere la soddisfazione?».
Insisto: lei non ha mai avuto paura?
«Da bambino non dormivo con il buio, volevo sempre la porta aperta».
E poi?
«Mia mamma Adriana mi ha trasmesso il gusto della sfida. Lei era come me: estroversa, sprezzante del pericolo. Mio padre Angelo invece è un po' tedesco, duro».
Sua mamma morì sciando.
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«È stata la prima maestra di sci a Cortina. Andavamo spesso a fare i fuoripista sul monte Cristallo, ma quel mattino dell' aprile 1985 ebbi un presentimento. Preferii restare a casa.Mamma era davanti, con papà che le diceva di andare piano. Incrociò le punte degli sci, precipitò per 600 metri. La trovarono che era ancora cosciente, mormorò: "Ma si può morire così?". Papà si precipitò a valle per chiamare i soccorsi, ma non volevano mandare l' elicottero. Mori a mezzanotte, sotto i ferri. Oggi il fuoripista porta il suo nome: canalino Adriana».
Lei aveva 15 anni.
SOFIA GOGGIA
«Mia sorella più grande, Katia, smise di sciare. Era più forte di me, già in nazionale.
Ora gestisce il negozio di famiglia: lampadari.
Io invece mi sbloccai. Avevo una gara la domenica dopo, la famiglia voleva ritirarmi; io pensai che la mamma avrebbe voluto che partecipassi, e vincessi. Vinsi. Prima andavo piano.
Cominciai a correre. Come se avessi assorbito la sua fiducia, la sua forza. Come se lei in qualche modo mi accompagnasse, su ogni pista, in tutta la mia carriera. Papà invece era terrorizzato. Mi amava moltissimo ma non guardava le mie gare in tv, temeva che mi facessi male».
Dopo la morte della mamma, suo padre la mandò in collegio.
«A Lienz, in Austria. Lui non aveva potuto studiare, mio nonno a 11 anni l' aveva voluto al lavoro con sé, in panificio. Adorava leggere; io invece non ho mai aperto un libro, aspettavo la campanella per andare a sciare, giocare a hockey, correre nel bosco. Ero stato bocciato 5 volte. Il collegio mi ha fatto bene, ho imparato il tedesco. Così potevo parlare con il mio idolo».
Chi?
vacchi
«Pirmin Zurbriggen. Quando nel 1990 lo battei ad Are, nella sua ultima gara, mi disse che ero il suo erede. Non era vero: uno come lui non ha eredi; però mi fece felice».
Chi era il nonno?
«Nonno Paolo era stato alpino in Russia.
Della ritirata non parlava mai; solo con i commilitoni superstiti. Il suo vicino di casa era Lino Lacedelli, il leggendario alpinista degli Scoiattoli di Cortina».
Le parlò della conquista del K2?
«No. Mi parlava di legna. Lacedelli e il nonno erano ossessionati dalla legna. Ne tagliavano intere cataste. Avevano avuto fame in guerra, freddo in alta quota; e non volevano che mancasse la legna per figli e nipoti. Anch' io ho passato il lockdown a fare legna. È un istinto di noi montanari».
Che rapporto ha con Alberto Tomba?
SOFIA GOGGIA
«Ci conosciamo da bambini. La famiglia di Alberto ha una casa a Cortina, lui era il fidanzatino di mia sorella. Gareggiavamo insieme, ma venivamo sempre battuti da Gianluca Vacchi».
Quello dei balletti sui social?
«Lui. Per nostra fortuna smise di sciare. Alberto Tomba è una persona buonissima. Purtroppo non ha mai accettato il calo di popolarità, lo fa soffrire non essere più riconosciuto per strada dai giovani».
E lei?
«A me non importa. E poi qui a Cortina mi conoscono tutti; anche perché si chiamano quasi tutti Ghedina. Così ognuno ha un secondo cognome. Il mio è Broco. Tomba mi chiama ancora adesso così: "Come stai, Broco?"».
gianluca vacchi 5
Tra una settimana ci sono i Mondiali, e Sofia Goggia si è fatta male.
«Una disdetta. Si riprenderà: Sofia è una fuoriclasse della discesa. Come Dominik Paris.
Abbiamo una grande squadra, sia femminile sia maschile».
Chi è stato il suo migliore amico sulle nevi?
«Peter Runggaldier. Dividevamo la stanza, e dormivamo sempre con la finestra aperta: per me una temperatura sopra i 14 gradi è malsana, tropicale. A Wengen ci diedero una camera con terrazzo. La notte ci fu una bufera. Al risveglio avevamo una spanna di neve ai piedi del letto. Runghi portava un orologio che segnava la temperatura: meno 4».
Come gestiva la tensione della gara?
«Ascoltando musica. Paris ad esempio sente gli Ac/Dc, il rock duro».
Lei cosa ascoltava?
«Laura Pausini. A tutto volume. Fino a quando gli altri non mi facevano smettere: "Italiani sempre melodici! Basta!"».
L' emozione più grande della sua vita?
alberto tomba
«La nascita di mio figlio Natan, 4 mesi fa. Le vittorie sono meravigliose; ma nulla è come un figlio. La mia fidanzata si chiama Patrizia».
Crede nell' Aldilà?
«Tendo a credere a quel che vedo. Ma mi piace pensare che, in tutti questi pericoli, mia mamma mi sia sempre stata vicina. E che sia stata orgogliosa di me».
ALBERTO TOMBA