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    “PAPÀ SENTIVA SULLE SPALLE IL PESO DI TUTTA LA SARDEGNA” – PARLA IL FIGLIO DI GIGI RIVA, NICOLA: “MIO PADRE AVEVA SCELTO DI RESTARE, RIFIUTANDO I SOLDI DELLA JUVE, DELL’INTER E DEL MILAN. AVEVA DIMOSTRATO DI AMARE LA SARDEGNA QUANTO LA SARDEGNA AMAVA LUI” – GLI ULTIMI GIORNI: “AVEVA AVUTO L’INFARTO DI NOTTE, MA LO AVEVAMO RICOVERATO SUBITO. PERÒ GIÀ DALLA MATTINA, QUANDO GLI AVEVANO PROPOSTO L’INTERVENTO E LUI AVEVA RISPOSTO CI PENSO, HO CAPITO CHE SAPEVA COME SAREBBE FINITA. HA SCELTO LUI FINO ALL’ULTIMO”- LA DEPRESSIONE, IL VAR CHE DETESTAVA E L’IDEA DI UNA STATUA PER CELEBRARLO


     
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    Elvira Serra per corriere.it - Estratti

     

    gigi riva gigi riva

    Il primo ricordo con suo padre?

    «Nella sua casa al mare, dove si trasferiva d’estate nel mese di pausa da dirigente del Cagliari. Sul retro, aveva fatto costruire un campo di calcetto piccolino con l’erba sintetica e ci giocavamo insieme, anche con mio fratello Mauro. Lì, era solo nostro padre».

     

    È mai stato geloso del fatto che fosse un po’ di tutti?

    «Ho un po’ sofferto. E poi non viveva con noi, voleva i suoi spazi. Però quando il mercoledì si giocavano le coppe, veniva a guardarle a casa ed erano sempre momenti speciali. Oppure era bello trovarlo fuori dalla scuola, ci aspettava in macchina».

     

    Lo ha mai visto arrabbiato?

    «Soltanto una volta io e Mauro lo abbiamo fatto spazientire, ma eravamo bambini. In ascensore non la finivamo di litigare e lui con il sinistro mi diede questo calcio sul sedere che mi fece volare».

     

    gigi riva con i figli nicola e mauro gigi riva con i figli nicola e mauro

    Nicola, 48 anni, è il primogenito di Gigi Riva, l’eroe che ha regalato alla Sardegna l’unico scudetto e la dignità calpestata sugli spalti di mezza Italia, al suon di «pecorai» e «banditi». Nella casa del padre, in centro a Cagliari, alle pareti ci sono ancora le foto di Rombo di Tuono con Pelè, le carezze di Buffon e Roberto Baggio, lui con Maradona e con Andre Agassi, il bacio sulla Coppa del Mondo nel 2006, la maglia rossoblù numero 11 il giorno del ritiro, il Collare d’oro con Malagò. Domani avrebbe compiuto 80 anni e Cagliari gli ha dedicato una settimana di festeggiamenti.

     

    È cresciuto quando non esisteva YouTube. Che effetto le faceva suo padre in tv?

    «Piangevo sempre, mi creava un po’ di confusione».

    Il gol più bello?

    il tavolo di gigi riva al ristorante di cagliari il tavolo di gigi riva al ristorante di cagliari

    «Di sicuro la rovesciata di Vicenza. Ma la partita più bella di tutte, per me, è stata Juventus-Cagliari del 1970».

     

    (...)

     

    «Papà sentiva sulle spalle il peso di tutta l’isola».

    Quell’anno suo padre portò a Cagliari l’unico scudetto. È per questo che i sardi lo hanno amato così tanto?

    «Lo scudetto da solo non basta. Papà aveva scelto di restare, rifiutando i soldi della Juve, dell’Inter e del Milan. Aveva dimostrato di amare la Sardegna quanto la Sardegna amava lui. Non sarebbe mai potuto andare via perché non avrebbe potuto abbandonare quella famiglia che aveva trovato in mezzo ai sardi».

     

     

    Ai funerali, sul sagrato della Basilica di Bonaria, c’erano trentamila persone. Lei dal pulpito disse parole struggenti: con suo fratello avreste voluto fare voi le condoglianze a chi era venuto a salutarlo.

    «La camera ardente è stata un momento incredibile. Vedere persone di ogni età in coda fino alle undici di sera, sfidando il freddo, arrivando da lontano... Sconosciuti che piangevano davanti alla bara, disabili, anziani, non vedenti che pure volevano rendergli omaggio, mi ha fatto capire quanto fosse importante».

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    Perfino i centralinisti di Amazon vi hanno mandato dei fiori. Cosa c’entravano?

    «Eh, ma Gigi Riva per tutti era sinonimo di Cagliari, era la Sardegna. E poi per ciascuno rappresentava un legame con qualcun altro: chi ne aveva sentito parlare dal nonno, chi dal padre. Qualcuno in camera ardente mi ha detto: babbo non usciva di casa da quattro anni, ma è voluto venire per lui».

     

    Il 22 gennaio si aspettava che se ne andasse così in fretta?

    «No. Aveva avuto l’infarto di notte, ma lo avevamo ricoverato subito. Però già dalla mattina, quando gli avevano proposto l’intervento e lui aveva risposto ci penso, ho capito che sapeva come sarebbe finita. Ha scelto lui fino all’ultimo. Ci conforta che ce lo siamo goduto negli ultimi anni».

     

    Nel 2017 si era ritirato a vita privata. Non usciva di casa.

    «Lì è tornato a essere Luigi e basta, come lo hanno sempre chiamato in famiglia. Ogni sabato sera ci ritroviamo ancora qui a casa sua, con mamma, mio fratello, le cinque nipoti, come se ci fosse ancora. E in effetti c’è».

     

    Riccardo Milani, nel docufilm che gli ha dedicato e che si può ancora vedere su Netflix, ce lo ha restituito con lealtà, con i silenzi e il fumo delle sigarette.

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    «Riccardo è diventato di famiglia, lo ha raccontato con rispetto e amore. Papà si fidava di lui ed è solo per questo che gli ha permesso di fare il film. Per due giorni a casa sua sono arrivate 30 persone, e già il secondo giorno è stata dura farglielo digerire».

     

    Com’è stato vivere la sua depressione?

    «Difficile. Ma abbiamo cercato sempre di stargli vicino anche con il silenzio: non servivano parole, ma solo che sapesse che c’eravamo».

     

     

    Cosa l’aveva scatenata?

    «Mi sono interrogato e ho fatto le mie ricerche. Credo che tutto sia legato alla sua infanzia. Papà ha realizzato il suo sogno di giocare a calcio. Ma aveva perso il padre a 8 anni, una sorellina a 11, la madre a 16, senza riuscire a condividere il benessere economico che aveva raggiunto. Nonna Edis è stata il suo grande amore e il suo grande rimpianto».

     

    Se l’è portata nell’ultimo viaggio, la foto sul cuore.

    «Non si staccava mai da quella foto».

    Ne vedevate altre insieme?

    «Guardavamo qualsiasi cosa meno che il calcio. Non gli piaceva quello di oggi, non si riconosceva, detestava il Var».

     

    Ci dice qualcosa di lui che non sappiamo?

    «Era un buon tennista e un giocatore di golf bravissimo. Ma pure lì, un giorno ha deciso che voleva smettere e ha smesso. Così».

     

    Quella di Gigi Riva è un’eredità pesante. Era un eroe.

    «Nel 2017 ho cominciato a seguire più da vicino le sue cose e ho scoperto di riuscire a farlo. Da ragazzino, invece, è stato difficile. Quando giocavo a calcio il confronto era inevitabile. Papà non veniva a vedere me e mio fratello per non crearci ansia, ma mi è mancato avere i suoi consigli. Sia io che Mauro ci siamo creati la nostra vita lontano dal calcio. Papà ci diceva che era orgoglioso di noi, e non era uno da facili complimenti».

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    È appena entrato nel cda del Cagliari. È contento?

    «Sì. Soprattutto ho accettato quando sono stato sicuro che mi volevano per il contributo che potevo dare e non per il mio cognome».

     

    (...)

    Va ancora da Giacomo, il ristoratore-chioccia di Gigi?

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    «Sì. All’inizio è stata dura, perché Giacomo ha trasformato in una specie di altare il tavolo dove stava papà: non ci fa sedere più nessuno, nemmeno se il locale è pieno».

    A Cagliari c’è chi vorrebbe una statua. L’idea le piace?

    «Tantissimi comuni si stanno organizzando per rendergli omaggio con un murales, una piazza, una via o altro. Ben venga la statua, come qualsiasi altra iniziativa popolare, non legata alla politica».

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