Gino Castaldo per “la Repubblica”
GINO CASTALDO ERNESTO ASSANTE 2
Ci sono cose che come giornalista non vorresti mai scrivere. Come parlare della morte di un fratello. Perché Ernesto era soprattutto mio fratello, il mio fratello minore, e la sua famiglia è diventata parte della mia famiglia.
Ci siamo conosciuti letteralmente nelle stanze di Repubblica, quando il giornale stava fabbricando un nuovo sogno di giornalismo, io di qualche anno più grande, e in quelle stanze abbiamo imparato a volerci bene.
scalfari gino castaldo ernesto assante
Avremmo potuto scannarci, calpestarci, giocare di rivalità, in fondo facevamo lo stesso identico lavoro e avevamo gli stessi identici sogni, e invece no, siamo diventati amici, rispettandoci, imparando a convivere e crescere l’uno accanto all’altro, vicini, senza pestarci i piedi, io magari qualche volta approfittando biecamente dei miei anni in più, e di essere arrivato lì un paio d’anni prima, ma senza esagerare più di tanto.
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Ernesto era sempre pronto, sempre disponibile, curioso, imbattibile, sorridente, aveva sempre un’idea nuova, non si scoraggiava mai, sta di fatto che in quarantacinque anni di militanza non abbiamo mai litigato, anzi no, ho detto una fesseria, abbiamo litigato un sacco di volte, a bestia, urlando come pazzi, ma lo facevamo come fratelli che ogni tanto si danno addosso ma non mettono mai in discussione la sostanza del loro rapporto.
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Poi ogni tanto mi chiamava al telefono solo per dirmi che mi voleva bene, e ogni volta mi faceva venire gli occhi umidi, perché mi spiazzava con la sua innocente pazzia da sentimentale, la stessa passione che ogni tanto condividevamo sul lavoro perché eravamo entrambi avvinti dalla bellezza, ci sembrava di vivere per quella, il che era un enorme privilegio, soprattutto negli anni in cui la bellezza della musica travolgeva ogni cosa, dava lezioni di vita, ci portava per mano e ci autorizzava a pensare che un mondo migliore fosse possibile.
E così mentre ognuno badava alle sue cose, ai propri servizi, alle proprie strade individuali, abbiamo inventato insieme grandi cose, abbiamo curato per il giornale collane di dischi che hanno fatto epoca, abbiamo inventato un supplemento musicale sotto l’ala protettiva del padre fondatore Scalfari, abbiamo scritto libri, abbiamo inventato un programma multimediale web da cui è passato tutto il mondo dello spettacolo, abbiamo fatto per più di 15 anni serate di lezioni di rock all’auditorium di Roma, e tutto questo senza intaccare la nostra autonomia di giudizio, il nostro lavoro individuale. Anche sulla musica eravamo spesso in disaccordo ma andava bene così.
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Litigavamo e litigando ci avvicinavamo sempre di più. Spesso la gente che veniva a vederci nelle serate ci faceva il complimento più grande: sembra che abbiate provato e riprovato e invece no, a volte non provavamo un bel niente, c’era un’intesa che si materializzava sul palco come d’incanto, poteva essere il teatro antico di Pompei dove increduli ed emozionati abbiamo raccontato Dark side of the moon dei Pink Floyd o Piazza Maggiore a Bologna, quando chiudevamo il festival di Repubblica raccontando dei Beatles o di Franco Battiato, convinti che l’idea di poter lasciare anche solo una piccola traccia nel cuore di qualcuno fosse la parte più alta, bella e misteriosa del nostro lavoro.
Ernesto era un tossico del lavoro, non si fermava mai, non voleva fermarsi mai, più che l’ozio creativo, che io invece ho sempre prediletto, praticava il continuum, la macchina feroce e instancabile del lavoro, l’ho scoperto una volta mentre lavorava al computer con ancora addosso le bende di una delicata operazione chirurgica, mi arrabbiai come un matto ma era più forte di lui, doveva dare e poi ancora dare, generoso e insaziabile, e dovunque andavi, con chiunque parlavi, trovavi tracce del suo passaggio.
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Ma aveva passione, indomabile, non negoziabile, sapeva di fare il lavoro più bello del mondo e cercava sempre di giustificare questa fortuna. Era in fondo in fondo un inguaribile rocchettaro, aveva un’orribile suoneria al cellulare che teneva a tutto a tutto volume con un pezzo degli Ac/Dc, motivo per cui lo prendevo puntualmente per il culo, ma lui non mollava, la teneva perché lasciare dove poteva un segno di rock era uno sberleffo a cui non sapeva resistere. Ernesto, il mio fratello minore, era stato stregato dalla musica da piccolo e lui il mondo cercava di stregare, divulgando musica.
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