Tommaso Labate per corriere.it
giorgetti bossi
Nei giorni di bufera, raccontava anni fa agli amici Giancarlo Giorgetti, «metto in pratica uno dei tanti insegnamenti che mi ha dato Umberto Bossi». Succedeva durante le crisi di governo, le liti con gli alleati, i tormenti interni alla Lega, «io dicevo “Umberto, hai letto che cos’ha detto Tizio?” e lui mi rispondeva “ecco, Giancarlo, in questi momenti tu non devi leggere niente, neanche i giornali, perché così eviti di farti influenzare da quello che dicono gli altri e ragioni con la tua testa”».
E ora che tutti questi elementi tornano prepotentemente in cima ai titoli del suo dualismo con Matteo Salvini — la bufera, le liti interne, i tormenti, i giornali, i giornalisti e persino il ragionare con la propria testa — chissà se il ministro dello Sviluppo economico avrà ripensato agli anni del Senatur, quando si era guadagnato la fama dell’essere praticamente l’unico «delfino» sulla scena politica italiana ad avere una lealtà che lo posizionava al di sopra di ogni sospetto, graniticamente fedele alla linea, totalmente ortodosso, privo di eccentricità degne di nota che non fossero l’essere tifoso di una squadra di calcio inglese (il Southampton) e al servizio di un leader soprattutto quando era sul punto di morire, come capitò al Senatur nel 2004.
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Altro che rivoltarsi, in quell’occasione — sempre dai racconti privati che Giorgetti ha riservato agli amici negli ultimi anni — «ero l’unico insieme alla moglie, ai figli e alla scorta che sapeva dove si trovasse la clinica in cui Umberto stava facendo la riabilitazione, nel Canton Ticino. Per mantenere il segreto, quando andavo da lui lasciavo il cellulare spento in un autogrill prima di superare il confine e lo riprendevo una volta tornato sul suolo italiano, per evitare che da spento suonasse con la segreteria telefonica svizzera».
Il tema della rivolta dei delfini si è spesso intrecciato con lo stato di salute o con la morte del leader, a volte — non sempre — a prescindere dalle reali intenzioni dei protagonisti. Achille Occhetto e Massimo D’Alema che siglano un patto di non belligeranza nel garage di Botteghe Oscure nel giorno dei funerali di Enrico Berlinguer, per esempio; e, sempre dalla storia del Partito comunista italiano, nel 1988, le dimissioni del segretario Alessandro Natta, formalizzate dal letto in cui era stato costretto da un infarto a Gubbio, segnate dal sobrio burocratese di partito nella lettera pubblica («Le recenti vicende politiche, con il preoccupante risultato delle elezioni amministrative, rendono urgente un mutamento delle responsabilità di direzione») e dal risentimento verso i delfini in una lettera privata resa nota anni dopo («Compagni, non vi siete comportati lealmente. C’è stato un tramestio, davanti alla mia stanza d’ospedale. Quello che avete fatto per me è stato offensivo»).
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Perché la storia delle rivolte dei delfini nei confronti del leader può seguire la traiettoria che viaggia da «farsa» in «tragedia» ma anche il suo percorso marxiano, inverso, da «tragedia» a «farsa». Il pathos via via discendente che ha ammantato il dossier tutte le volte che il delfino era quello indicato da Silvio Berlusconi, e il leader Berlusconi stesso, ne è una prova.
«Siamo alle comiche finali», mandò a dire Gianfranco Fini al Cavaliere prima delle elezioni del 2008; poi ricucirono e ruppero definitivamente, con quel «che fai, mi cacci?» che scandì nel 2010 tempi e ritmi del divorzio di una coppia politica che diciassette anni prima, all’inaugurazione di un centro commerciale di Casalecchio di Reno («Se fossi a Roma, voterei per Fini sindaco», Berlusconi dixit), aveva messo la prima pietra sulla Seconda Repubblica.
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Negli anni a venire, il numero uno di Forza Italia avrebbe indicato la successione di Angelino Alfano, che poi avrebbe fondato un partito tutto suo per non uscire dalla maggioranza che sosteneva il governo di Enrico Letta; e poi l’incoronazione soft di Giovanni Toti, nominato «consigliere politico» nella sacralità del balcone di un centro benessere di Gardone Riviera nel 2014, che sei anni e mille peripezie dopo sarebbe diventato nel gergo di Arcore l’incrocio tra un traditore e un ingrato, «gli ho telefonato e gli ho lasciato più volte messaggi ma non mi risponde più», confessò una volta Berlusconi.
BERLUSCONI E FINI
Il leader sopravvissuto a più delfini, accompagnato dall’etichetta di essere un «Crono che divorava i suoi figli», è stato Marco Pannella. «Domenica alla radio hai fatto un’ora di trasmissione per farmi un culo così!», sbottò una volta Daniele Capezzone. «Ma aoooh? Ti credi davvero di essere un grande stratega mentre gli altri sono degli str..zi?», rispose il Capo. E visto che era tutto in diretta su Radio Radicale, da quel giorno del 2006 il giovane segretario radicale non era più il delfino. Pannella, invece, sarebbe rimasto Pannella. Fino alla fine.
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