ALBERTO MATTIOLI PAZZO PER L OPERA
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Aggiornamento statistico. Ieri sera la mia recita d’opera numero 1.858: “Julius Caesar” all’Opera di Roma - Altra non recensione: soltanto qualche considerazione sparsa. Intanto, complimenti al coraggio dell’Opera di Roma, che inaugura con una novità (non accadeva - pare - dal 1901, con l’aggravante che allora furono “Le maschere”) e anche a Giorgio Battistelli che, con il libretto di Ian Burton e la regia di Robert Carsen, rilegge di nuovo Shakespeare (e che Shakespeare...).
Squadra che vince non si cambia dopo il magnifico “Richard III” di Anversa poi visto alla Fenice. Chapeau anche a Burton, che riduce il Bardo di due terzi ma conservandone spesso le parole, specie, con saggia accortezza teatrale di un pragmatismo tutto anglosassone, quelle più celebri: le battute famose ci sono tutte.
giorgio battistelli foto di bacco
Battistelli è un vero operista. La sua musica, densissima, “scura”, ritmicamente molto frastagliata, di difficile esecuzione ma non di difficile ascolto, funziona benissimo nella descrizione di atmosfere: la lunga attesa del primo atto (che va fino all’assassinio), le incertezze dei congiurati, le tergiversazioni di Cesare, le ambiguità di tutti sono narrate da un’orchestra che esprime quello che i personaggi non vogliono o non riescono a dire.
Raccontare il dubbio è difficilissimo: Battistelli ci riesce. Funziona molto bene anche la scena dell’uccisione e ho trovato bellissima, il vertice della partitura, quella dell’ultima notte di Bruto con l’apparizione del fantasma di Cesare.
Dove Battistelli convince meno è nell’affrontare il vero problema del linguaggio operistico contemporaneo: la vocalità. Tutti i personaggi cantano allo stesso modo, con un declamato che se da un lato permette di percepire tutte le parole (e che parole...), dall’altro non li differenzia affatto.
julius caesar 5
Paradossalmente, Cesare potrebbe cantare la musica di Bruto, e viceversa. Con tutto ciò, l’opera ha un’efficacia teatrale (che poi, a teatro, è quel che ci interessa davvero) indiscutibile, come dimostra alla “seconda” l’attenzione di un pubblico mesmerizzato.
Spettacolo di Carsen bello ma non bellissimo (per intenderci: non all’altezza degli ultimi due capolavori visti, “Iphigénie en Tauride” agli Champs-Elysées e “Il ritorno d’Ulisse in patria” alla Pergola). Ambientare il primo atto in un emiciclo parlamentare è un’idea bellissima ma che condanna l’azione a una certa staticità, e mi sembra che la gestione degli spazi e dei movimenti sia meno millimetricamente precisa che in altre occasioni. Con tutto ciò, Carsen resta Carsen, e il suo non meglio è migliore del meglio di quasi tutti gli altri.
julius caesar 11
Sul podio, un Daniele Gatti regale riesce non solo a risolvere i rebus esecutivi, ma anche a dare a ogni momento la giusta espressività. Sulla compagnia ho invece dei dubbi, nonostante sia ormai di regola, alle prime assolute, apprezzare tutti (facile, in assenza di termini di paragone).
robert carsen
Mi sembrano eccellenti il Cesare di Clive Bayley, che ricorda molto Trump, e soprattutto la rediviva Ruxandra Donose come Calpurnia, unico personaggio femminile. Ma per esempio sia il Bruto di Elliot Madore sia il Cassio di Julian Hubbard mancano di volume, specie quando devono cantare dalle lontane vette di Montecitorio.
A proposito, e concludo scusandomi per la prolissità: Cesare è un politico populista, quindi pollice verso. Ma anche i rituali pur necessari di tutti questi peones in abito grigio e ventiquattr’ore appaiono inconcludenti: è il paradosso della democrazia che, come diceva un altro inglese che sapeva usare le parole, resta la peggiore forma di governo, con eccezione di tutte le altre.
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julius caesar 55 il maestro daniele gatti