Paolo Beltramin per “Sette – Corriere della Sera”
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Era appena uscito in libertà condizionata dalla prigione di Rikers Island, lei non lo vedeva da poco più di un mese, dalla notte in cui Jennifer Levin era stata strangolata a Central Park. Ora, mentendo ai suoi genitori, Alexandra Kapp stava correndo da lui.
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Non riusciva a credere che il suo fidanzato fosse un assassino. Deve essere stato un incidente, oppure lei l’ha provocato, si diceva. «Richard indossava un maglione a collo alto blu scuro. Sembrava più magro e pallido, ma aveva lo stesso sguardo penetrante. Il mio cuore batteva all’impazzata. È imbarazzante ripeterlo adesso da adulti, ma mi ricordo di aver pensato: ci baceremo?».
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Appena entra nella stanza, Alexandra osserva sotto la scrivania pile di giornali con le foto di lui in prima pagina. Fa una battuta per sciogliere la tensione: «Be’, almeno hai ottenuto quello che hai sempre voluto: adesso sei famoso». Lo risposta di Robert è un ghigno che la fa tremare fino al midollo. Inventa una scusa e scappa il più veloce possibile: non si volterà mai indietro.
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La Grande Mela
Sono gli anni Ottanta a Manhattan, il decennio di Gordon Gekko, dei ricchi che possono tutto e di metà della popolazione che a stento riesce a sfamare i propri figli. Sotto la superficie lucida, la Grande Mela è marcia. Se siete stati a New York nel nuovo secolo, avete visitato un’altra città: in quel 1986, il NY Police Department registra la cifra record di 1.582 omicidi, quasi cinque al giorno (nel 2018 sono stati meno di trecento).
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Molti, quelli legati alle gang o al traffico di droga, non vengono nemmeno riferiti all’ufficio stampa della polizia, tanto ormai non fanno più notizia. Ma se i protagonisti sono bianchi, di buona famiglia, giovani e belli, è tutta un’altra storia. Una storia che è arrivata fino a noi.
Alle 6 e mezza della mattina del 26 agosto un ciclista trova il corpo di Jennifer Levin, diciott’anni, disteso nell’erba. La gonna sollevata sopra il petto, i vestiti attorno al collo e ferite ovunque. Nascosto da un muretto dietro il Metropolitan Museum, il suo amico Robert Chambers, un anno più di lei, osserva di nascosto l’arrivo della polizia e dell’ambulanza sulla scena del delitto.
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Due ore prima, lui e Jennifer avevano lasciato il Dorrian’s Red Hand nell’Upper East Side, che insieme allo Studio 54 è uno dei principali punti di ritrovo dei giovani benestanti, spesso trascurati dai genitori impegnati nella finanza, tutti con in tasca un documento di identità falso per bere prima dell’età consentita. Quella sera Robert e Alexandra avevano litigato, e lei gli aveva fatto una scenata davanti a tutti: «Tieni, usali con un’altra», aveva urlato lanciandogli un mazzo di preservativi. Lui era rimasto al bancone del bar, impassibile.
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Poco dopo gli si è avvicinata Jennifer. I due hanno già dormito qualche volta insieme, lei lo trova bellissimo, irresistibile; tra una settimana partirà per il college, vuole prendersi quello che desidera. E ci riesce: all’alba escono dal locale insieme. Due anni prima Madonna ha scandalizzato l’America con Like a Virgin: un inno liberatorio all’indipendenza delle donne, anche a letto, o per i più conservatori una delle tante prove del degrado dei costumi.
I graffi sul volto
Dopo aver visto i medici portare via il corpo di Jennifer, Robert rientra a casa, si fa una doccia e va a dormire come niente fosse. Poche ore dopo bussano alla sua porta: gli investigatori vogliono ascoltarlo perché è l’ultima persona ad aver visto la ragazza viva, non si aspettano di trovarsi davanti all’omicida. Ma i graffi sul suo volto parlano chiaro.
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«Era matta. Continuava a dire quanto fossi carino e come sarei stato ancora più carino legato. Avevo graffi ovunque, urlavo dal dolore»: arrivato in Centrale, davanti a una telecamera, Chambers prova a difendersi. «Mi faceva male, le chiedevo di fermarsi, ma lei mi ha ficcato le unghie nel petto, ecco perché ho questi segni».
È a quel punto, racconta agli inquirenti, che reagisce: si libera, le stringe il collo, riesce a togliersela di dosso. Solo quando le chiede di rivestirsi si accorge che Jennifer non respira più.
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Sesso violento
Nel suo racconto, la vittima diventa aggressore: era «rough sex», sesso violento, e non ha cominciato lui, giura il ragazzo. I giornali ci vanno a nozze. Prima del caso O.J. Simpson, è The Preppy Murder — «preppy» sono gli adolescenti che frequentano le scuole private, i «fighetti» — il processo del secolo, in un ambiente che sembra uscito dritto da un romanzo di Bret Easton Ellis, nello stesso quartiere dove più tardi agirà il magnate pedofilo Jeffrey Epstein.
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«A volte Robert poteva comportarsi in modo strano» racconta un amico in un’intervista «ma ci sballavamo tutto il tempo, quindi è difficile stabilire se fosse la sua personalità o l’effetto della droga».
Una gioventù difficile
Il giovane Robert, però, non faceva che deluderla. Buttato fuori da un istituto dopo l’altro, aveva cominciato a drogarsi giovanissimo: a 14 anni era già dipendente dalla cocaina. Quell’estate, era rientrato dal Minnesota dopo essere scappato da un centro di riabilitazione. Fairstein scopre poi il suo coinvolgimento in una ventina di furti. Perfino dal portafogli di Jennifer mancavano 40 dollari, quella mattina, e gli orecchini che indossava nel locale non sono mai stati ritrovati.
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«Era un depravato, un sociopatico», ha raccontato quest’anno Fairstein ad Amanda Knox, che al “Preppy Murder” ha dedicato una intera serie del suo controverso podcast sui grandi crimini. La difesa però, grazie alla complicità dei media, riesce a sminuire questi elementi, e anche in aula sotto accusa finisce Jennifer, il suo passato, la sua vita sessuale, la sua presunta “disinvoltura”, come si dice in quegli anni.
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«È più bello di persona»
Quando il caso arriva in tribunale nell’autunno del 1987, è stato così tanto dibattuto sui giornali e in tv che selezionare giurati non prevenuti risulta complicato. Una donna viene scartata perché alla domanda se si fosse formata una impressione di Chambers risponde: «È molto più bello di persona».
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La narrazione che aveva tenuto banco sui media viene però smentita dalle prove materiali: le immagini della vittima con un occhio nero e segnata dalle ferite, le testimonianze degli esperti secondo i quali per morire di asfissia occorre tempo. Chambers aveva applicato pressione dai tre ai cinque minuti, sviluppando quindi l’intenzione di uccidere.
«In più di ottomila casi di violenza sessuale denunciati negli ultimi dieci anni a New York» dirà Fairstein «questo è il primo in cui un uomo sostiene di essere stato assalito da una donna». Un uomo robusto, alto molto più di lei, che pesava quasi il doppio.
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Eppure, alla fine la giuria è in stallo: per nove giorni i giurati si chiudono in camera di consiglio senza riuscire a scegliere tra incidente e omicidio volontario. Temendo che il processo venga annullato, la procuratrice si consulta con la famiglia di Jennifer e cede al patteggiamento. Chambers si dichiara colpevole di omicidio colposo di primo grado: dovrà scontare soltanto 15 anni.
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Nei decenni successivi Jennifer Levin è diventata un simbolo e la battaglia per la «rape shield law», la legge che vieta alla difesa di portare prove sulla condotta sessuale delle vittime di violenza, è ispirata anche al suo nome. In queste settimane, una produzione di Amc e SundanceTv, «The Preppy Murder: Death in Central Park», ha provato a restituire finalmente, attraverso le voci degli amici che al processo non parlarono perché minorenni, chi era veramente quella ragazza, vittima non abbastanza perfetta per i canoni dell’epoca.
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Con in sottofondo una domanda: come è stata possibile una difesa così totalmente centrata sulla colpevolizzazione della donna? E quanto sono cambiate davvero le cose da allora?
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Quanto a Chambers, è uscito dal carcere nel 2003, ma ci è tornato appena cinque anni dopo per spaccio di cocaina. Ha preso una condanna più severa — diciannove anni — che per aver ucciso (e infangato) una ragazza che aveva appena finito il liceo.
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