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    IL CAPITANO PRIMA DEL CAPITANO - VITA, GIOIE E DOLORI DI GIUSEPPE GIANNINI, IL "PRINCIPE" GIALLOROSSO SIMBOLO DELLA ROMA TRA FALCAO E TOTTI - NEL CORSO DELLA SUA CARRIERA HA VINTO POCO IN RELAZIONE AL SUO TALENTO - IL NO A AGNELLI, L'ADDIO AMARO PER LE FRIZIONI CON FRANCO SENSI ("NON DOVEVA FINIRE COSÌ") - DOPO L'ADDIO AL CALCIO HA FATTO L'ALLENATORE ("IN LIBANO IL PRIMO ANNO ABBIAMO AVUTO VICINO A NOI 4 ATTENTATI"), HA TENTATO L'INGRESSO IN POLITICA, MENTRE OGGI FA…


     
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    Andrea Sereni per www.corriere.it

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    Elegante, carismatico, capitano, in una parola Principe. Guida e orgoglio della Roma, simbolo anche sfortunato e controverso, Giuseppe Giannini ha segnato un’epoca: dopo Falcao, prima di Totti. Che lui ha aiutato a crescere. Proteggeva la sua squadra il Principe, si batteva per i compagni.

     

    Ha detto no pesanti, ha vinto (poco) e ha sofferto (tanto), come con la Nazionale, leader ai Mondiali del 90, quelli del sogno divenuto incubo. Ha fatto anche l’allenatore, con alterne fortune. Voleva tornare alla Roma, per ora non c’è riuscito. Ma cosa fa oggi, a 57 anni, Giannini?

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    Gli inizi

    Andiamo con ordine. Dal principio, Roma, Quartiere Africano, dove il padre Ermenegildo gestisce un bar. A tre anni Giuseppe si trasferisce sui Colli, dove inizia a giocare a pallone. Prima nella parrocchia di San Giuseppe a Frattocchie e poi nel Santa Maria delle Mole. La prima vera squadra è l’Almas, preludio della chiamata della Roma. Debutta nel 1982, a 17 anni, e vince pur senza alcuna presenza in campo lo scudetto del 1982/1983. L’anno dopo raccoglie l’eredità di Falcao e entra in prima squadra. Ci resterà fino (quasi) al termine della carriera.

     

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    Il più grande rimpianto

    Nel 1986 ha già il numero 10 sulle spalle e la fascia da capitano al braccio. In quella stagione si annida il suo più grande rimpianto sportivo. Una partita maledetta: «Roma-Lecce 2-3, quando sfumò lo scudetto alla penultima giornata. Cosa accadde quel giorno? Che eravamo già cotti dalla settimana prima a Pisa, avevamo vinto in rimonta ma non c’era più brillantezza, troppo stanchi di testa e di gambe dopo la grande rincorsa alla Juventus, durata mesi. Sto ancora cercando di dare una spiegazione di quello che è successo poi: inizi, vai in vantaggio, poi sbraghi, sei cotto, non riesci a reagire. Pure se loro erano andati sul 2-1 dovevamo almeno pareggiare, se non vincere, invece non avemmo la forza».

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    Il no alla Juve e all’Avvocato Agnelli

    Giannini è bello e bravo. Capelli lunghi, sguardo feroce, leadership ostentata e vera. Lui, romano e romanista, trequartista e regista, gestione e verticalizzazioni. L’Avvocato Agnelli se ne innamora, lo vuole alla Juventus. Gli arriva ad offrire un assegno in bianco, ma il Principe dice no. «Per me Boniperti offrì 21 miliardi di vecchie lire al presidente Dino Viola per portarmi alla Juventus — ha raccontato in una recente intervista all’Avvenire —. Tornassi indietro? Rifarei la stessa scelta d’amore verso la Roma».

     

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    Roma: gioie e dolori

    Sfortunato, mai al posto giusto nel momento giusto. Anche in Nazionale, con quella semifinale ai Mondiali del 90 persa ai rigori contro l’Argentina di Maradona. Con la Roma gioca in totale 476 partite, con 76 gol, tra il 1981 e il 1996. Arriva per tre volte la Coppa Italia, poi una finale di Coppa Uefa persa contro l’Inter e un’altra, sempre di Coppa Italia, persa con il Torino.

     

    Una partita che racchiude in un certo senso l’essere Giannini: il Principe segna tre gol (unico a riuscirci in finale di Coppa con Domenighini), ma la sua tripletta non basta, ad alzare la Coppa sono i granata. L’ultima amarezza la vive in Europa, quarti di Coppa Uefa: segna di testa il gol del 2-0 contro lo Sparta Praga, esulta come impazzito sotto la Curva Sud. Ma ai supplementari dopo il gol di Moriero arriva la rete di Vavra: il 3-1 non basta alla Roma, Giannini il giorno dopo annuncia: «Me ne vado».

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    L’addio in lacrime: «Non doveva finire così»

    Dietro l’addio anche frizioni con l’allora nuovo presidente Franco Sensi, che non lo amerà mai. Il Principe emigra in Austria, gioca altri tre anni fra Sturm Graz (che gli offre un miliardo di lire l’anno, una lussuosa villa e una decina di viaggi aerei pagati per l’Italia), Napoli (chiamato da Carletto Mazzone) e Lecce, poi il ritiro. Il 17 maggio del 2000 organizza il suo addio al calcio, all’Olimpico, tra vecchie glorie giallorosse e compagni della Nazionale del 90. Ma la Lazio pochi giorni prima ha vinto lo scudetto, e i tifosi sono arrabbiati. Così la festa si trasforma in un incubo: invasione di campo, zolle e porte distrutte, il Principe che saluta in lacrime. «Non doveva finire così», dice al microfono rivolto allo stadio, abbracciato a Bruno Conti e Francesco Totti.

     

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    Giannini allenatore

    Appesa al chiodo la maglia numero 10 Giannini diventa allenatore. Anche qui non ha molta fortuna: «Sulla mia strada ho incontrato purtroppo malavitosi, pazzi scatenati, persone inaffidabili di ogni genere —ha raccontato in un’intervista al Corriere di Roma —. Poi per carità, anche io ho le mie colpe, ho sbagliato di sicuro qualche valutazione, delle persone e delle situazioni». Dal 2004 gira tra Foggia, Sambenedettese, Massese, Gallipoli (con cui ottiene una promozione dalla serie C alla B), Verona, Grosseto.

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     Fa anche il c.t., del Libano: «Una bella esperienza, in quei due anni ho conosciuto il mondo arabo, culture affascinanti. E non parliamo della tensione che hai quando vivi lì, per le situazioni pericolose e lo stato di guerra. Nel primo anno abbiamo avuto vicino a noi quattro attentati. Un’altra volta è esploso un appartamento a trecento metri da me, c’erano dentro dei terroristi. Senza contare che ai matrimoni e ai funerali i libanesi sparano in aria, devi stare attento alla ricaduta dei proiettili. Ripensandoci, ho rischiato molto. Ma mentre ero lì avvertivo più che altro l’adrenalina della situazione».

     

    Il tentativo in politica

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    Nel 2005 tenta il salto in politica: è tra i candidati di Forza Italia alle regionali del Lazio, ma non viene eletto (lui come altri sportivi come Felice Pulici, ad esempio).

     

    Il (mancato) ritorno alla Roma

    Ha provato diverse volte a rientrare alla Roma. «Certo che mi piacerebbe lavorare nella Roma, l’ho sempre voluto. Poi un po’ ci ho messo del mio, per stare in disparte, qualche passo l’ho sbagliato. Di sicuro hanno lavorato a Trigoria tante persone che la Roma non ce l’avevano così addosso come me, ecco».

     

    Dalle frizioni con Sensi è tutto fermo: «Le cose si sono guastate all’epoca, sì —le sue parole al Corriere —. Mi hanno fatto passare per quello che voleva stare lontano dalla Roma e se ne fregava. Diciamo che con modi diversi e in epoche diverse, ho passato quello che ha passato poi Francesco Totti. Lui ha avuto l’allenatore contro, Spalletti, e io ebbi Ottavio Bianchi. Lui ha avuto problemi con la società, da Baldini a Pallotta, e io con Sensi».

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    Il Principe e il futuro re

    Gli resta, come una spilla appuntata sul petto, l’aver svezzato Totti. «Quella di Francesco è la cosa a cui tengo di più. Sotto la mia ombra, o partendo da me, è cresciuto il più grande giocatore nella storia della Roma. Questo non me lo può togliere nessuno. Anche lui ha ammesso che sono stato un riferimento, io non lo sbandiero ma Francesco lo dice spesso, anche nei film e nelle interviste, e mi fa enormemente piacere, perché è la verità».

     

    Cosa fa oggi

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    Il Principe oggi vive a Castelgandolfo, in un superattico affacciato sul lago, a quattro passi dal Palazzo Pontificio che per secoli ha ospitato i papi in estate. È sposato con Serena, la compagna di una vita. Hanno due figlie, ormai grandi, Francesca e Beatrice, «sono nella ristorazione e mi sono dedicato a quello, di recente abbiamo aperto pure un locale in Sardegna. Sono anche nonno: Nina, uno spettacolo».

     

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     L’ultima esperienza in panchina è datata 2017, al Racing Fondi: «Mi hanno messo nel dimenticatoio. Per una serie di circostanze sono stato allontanato, ho avuto esperienze positive e negative ma hanno pesato più quelle negative. Poi non ho mai avuto un agente o una batteria di procuratori alle spalle, così non è che pensano a me quando capita un lavoro. Vedo allenatori che vengono esonerati e dopo poche settimane trovano un altro incarico. Ma non piango, non è nella mia indole, è solo una constatazione. Quindi mi occupo di altre cose e faccio il tifoso». Della Roma, ovviamente.

     

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